Cronaca

Cineporno, porcelloni dell’ultima oasi protetta. Il ‘pornologo’ Capozzi: “Un’arte democratica. Non morirà mai”

“Il muro di Berlino”. C’è chi lo supera con gli occhi piantati in terra. Chi sterza all’improvviso e sparisce nel buio. E ci sono quelli che ormai se ne fregano, per sfrontatezza o rassegnazione. ‘Il muro di Berlino’ – l’ha battezzato Pierre, habitué del piccolo mondo porno del cinema Centrale a Genova – è una porta di cristallo nera. Da una parte via San Vincenzo: luci di negozi, urla di liceali, profumo di focaccia. Dall’altra parte un attimo di buio che ti fa sgranare le pupille. Un silenzio da cui emergono mugolii, rantoli, urla. Lasciate ogni pudore o voi che entrate. Ormai il confine è superato: sei in un cinema porno.

La domanda ‘Scusi, ma cosa proiettate oggi?’ ti muore in bocca. Ass Parade, è scritto sulla locandina. Ma gli spettatori non ci fanno caso. Pagano 7 euro e tirano dritti. Certo che differenza con i titoli degli anni d’oro, quando il porno forse era davvero trasgressione e libertà. Ve li ricordate? Via col ventre, Eiaculazione da Tiffany, Mary Pompins, Il glande freddo, Altrimenti c’arrapiamo, Porchaontas, Un trans chiamato desiderio, Biancaneve sotto i nani. Fino alle citazioni di Ingmar Bergman (Il posto delle fregole) e Stanley Kubrick (Banana meccanica). E non c’è più la litania della pellicola nel proiettore. Un clic e parte il dvd. Resta un ultimo bivio da superare: “A sinistra film gay e trans, a destra etero”, fa un gesto Sergio, cassiere e gestore dello ‘storico’ Centrale. Destra o sinistra? Qui contano ancora, non come in politica. Con uno sguardo Sergio inquadra i clienti: malinconico, trasgressivo, attivo, passivo, guardone o esibizionista. Poi ci sono i marchettari, ragazzi in cerca di qualche soldo che cercano di imbucarsi.

Non ti resta che sollevare la tenda di velluto ormai consumato dalle mani che l’hanno toccato. Migliaia e migliaia. C’è chi entra con i guanti. Sono gli schifiltosi o chi, forse, non vuole lasciare tracce di sé. Tutto sembra uscire dagli anni ‘70: le sedie di plastica o legno, la scritta livida ‘toilette’. Nell’aria odore di moquette e disinfettante.

Primo spettacolo, ore 10 del mattino. Fuori c’è chi lavora, ci sono treni nella stazione Brignole, accanto al Centrale. Qui invece Alexia è già al lavoro. La trama non è articolata come in un film di Bergman: marito e moglie entrano in una casa da gioco, poi, dopo dieci secondi netti, sono già lì che si agitano. Anche i dialoghi non restano impressi. E il doppiaggio è fuori sincrono: lei parla in inglese e dopo cinque secondi arriva la traduzione. Ma non è essenziale: “So big”, dice la moglie mentre il marito si abbassa le braghe. Si va a senso. Non importa granché se la recitazione non segue il metodo Stanislavskij. Il viso si vede poco.

Ma perché venire qui, quando su internet basta un clic? “Le dimensioni” dello schermo spiega Sergio che riesce a staccare anche cento biglietti al giorno. Già, le dimensioni, e sullo schermo vedi due chiappe – lasciamo perdere il resto – di tre metri per quattro. In platea l’età media è sulla sessantina. Si siedono, guardano attenti per non perdere la trama. E poi… immaginate voi… il cronista si aggrappa a citazioni artistiche, tipo ‘Disperato erotico stomp’ di Lucio Dalla: “Mi son steso sul divano/Ho chiuso un poco gli occhi/E con dolcezza è partita la mia mano”. Sì, un po’ disperato. Ma perché qui e non a casa? Dopo qualche minuto le pupille al buio si dilatano. E cominci a vedere il mondo porno. La sua fauna. Sotto, in platea, un ferroviere che si è preso un attimo di trasgressione prima di tornare a obliterare biglietti sul regionale. Ma dalla galleria arrivano rumori strani, vedi ombre che si agitano. Vale per tutte le sale: il Centrale o il Chiabrera, nei vicoli cantati da Fabrizio De André. Una sala che pare un antro più che un cinema. Preservata com’era nel Ventennio. Il pavimento pieno di macchie, fazzoletti. È la regola non scritta di tutte le sale: nelle prime file si guarda. Dietro vale tutto. Basta sedersi e aspettare. Dopo qualche istante un ragazzo ti si mette accanto. Senti il suo fiato. Si mette una mano sul ventre. Capito? Sì, certo. Lui si chiama Andreas, dice di essere romeno. Qui si comunica con frasi mozze. Sillabe. Gesti. “Dieci euro”. Per fare cosa: e lui mima. Chiarissimo. Dove? “Qui”, però bisogna stare attenti alla maschera che spunta per riportare l’ordine. La decenza, anche se la parola fa sorridere qui, mentre sullo schermo ci sono due ragazzoni vestiti da soldati che assumono posizioni acrobatiche. “Ho una telecamera che inquadra la sala e quando vedo che la situazione si scalda intervengo”, sorride rassegnato Massimo Razzetta che gestisce il Gioiello, una sala aperta nel 1919. L’ingresso è una porticina aperta su un vicolo. Accanto un albergo a una stella e una casa di riposo, strani incroci della vita. Piove, l’odore marcio dei vicoli esce dalla pietra. Sono sempre qui i cinema porno, nelle terre di nessuno, lungo i confini invisibili delle città: i quartieri bene e i vicoli, le stazioni, il porto. “Mi piacerebbe mettere su un cineclub”, sospira Razzetta. Ma a 65 anni si rassegna: “Entri e li vedi tutti ammucchiati, come i piccioni quando metti le briciole di pane. E allora cacci due urli, li allontani”. Le briciole di desiderio sono una coppia, marito e moglie, tutti eleganti. Lei ha un cappottone nero. Lui con la cravatta stretta al collo pesante. Anna, dice di chiamarsi così con accento piemontese, comincia ad armeggiare con i vestiti di lui, si apre il cappotto. E dal buio spuntato tre ombre. Restano a un paio di metri di distanza, poi sempre più vicini. Allungano una mano per vedere fin dove si può. Uno estrae il cellulare: “No, quello no!”, urla il marito.

Si chiama cinema, ma lo spettacolo è in sala. “Si incontrano, e poi si danno appuntamento negli alberghi qui accanto, perché io rogne non ne voglio”, racconta Razzetta. Incontri chiunque: pensionati, disoccupati, ma anche professionisti e sacerdoti. Vent’anni fa in una sala genovese ci morì un parroco. Donne? “Poche, quelle sole le invito ad andare via, perché poi si mettono nei guai”, raccontano al Centrale. Non ci sono più i militari che approdavano qui in fuga dalle caserme. Ragazzi no, a loro basta un clic sul cellulare. Genova si ritrova capitale del porno: 4 sale. Chissà se sia per un primato della trasgressione o un più mesto record degli anziani.

Perché alla fine il cinema porno diventa pure questo: un punto di ritrovo. Approdi, aperti 365 giorni l’anno, per barche un po’ alla deriva. Si finisce per conoscersi, come per una briscola. “C’era un signore di novant’anni. È venuto per decenni”, racconta Razzetta. Ci si vede, pure se nell’ombra, per sentirsi meno soli e colpevoli. “Per non stare con la moglie… anzi, a volte sono le mogli che ce li spediscono”. Ci sono perfino i senza casa in cerca di tepore o di fresco d’estate. Una, due, tre proiezioni. Mezzi addormentati, mentre Alexia lì accanto si agita per ore. Instancabile.

“Sono finiti i tempi d’oro”, sorride Michele Capozzi. Si definisce pornologo. Nell’ambiente è un’autorità. Al Kowalsky, nota enoteca genovese, hanno organizzato una maratona in suo onore. Le sale traboccavano per il suo Pornology. Capozzi – genovese, 72 anni – era emigrato a New York negli anni d’oro. Bazzicò la corte di Andy Warhol e Basquiat. Poi l’approdo al porno. Direttore di produzione e attore con mostri sacri come John Holmes e Candida Royalle. Capozzi sorride con autoironia mentre si atteggia a maître à penser, i capelli lunghi bianchi, il cappotto lungo di pelle. “Negli anni ‘70 e ‘80 il porno era strumento di evoluzione sessuale. Poi arrivò l’aids. Allora fare un porno richiedeva soldi e idee. Ogni pizza undici minuti. Avevi sette scene. Oggi due ragazzi si mettono lì e girano”. Un mondo finito? No, Capozzi è sicuro: “Il porno non morirà mai, perché ognuno ci trova i propri sogni non realizzati. Il porno è democratico: i desideri di tutti sono uguali”.