Scienza

Così una gigante rossa ha riportato in vita una stella di neutroni diventata zombie

Il rarissimo fenomeno è stato catturato dal satellite Integral dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), che il 12 agosto 2017 ha rilevato un lampo di raggi-x emessi dalla stella di neutroni nel momento in cui è stata "rianimata"

È una relazione rara, un amore quasi impossibile che però come in una storia romantica ha un lieto fine. È la prima volta che si osserva una stella gigante rossa riportare in vita la compagna più piccola, una stella di neutroni ormai ridotta ad uno “zombie”. Il rarissimo fenomeno è stato catturato dal satellite Integral dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), che il 12 agosto 2017 ha rilevato un lampo di raggi-x emessi dalla stella di neutroni nel momento in cui è stata “rianimata”.

La scoperta di ricercatori dell’Università di Ginevra è stata pubblicata sulla rivista Astronomy and Astrophysics. È abbastanza comune osservare due stelle che ruotano l’una intorno all’altra in quello che è chiamato un sistema binario, ma l’unione di una gigante rossa con una stella di neutroni è un accoppiamento particolarmente raro, di cui si conoscono non più di 10 esempi. “Integral ha catturato il momento unico della nascita di un raro sistema binario – commenta Enrico Bozzo, alla guida del gruppo. – La gigante rossa ha emesso un vento stellare abbastanza denso e lento da ‘nutrire’ la compagna, provocando il lampo di raggi-x dal nucleo della stella morta”.

La prima misurazione del campo magnetico della stella di neutroni ha rivelato che è sorprendentemente forte, caratteristica tipica delle stelle di neutroni molto giovani. Le cause di questa particolarità possono essere due, aggiunge Bozzo: “Se le due stelle si sono formate insieme vuol dire che il campo magnetico della più piccola non è diminuito con il passare del tempo. Invece se la stella di neutroni è nata più tardi rispetto alla gigante rossa, allora probabilmente si è formata dal collasso di una nana bianca e non dalla più comune esplosione di una supernova”.

Lo studio su Astronomy and Astrophysics

Foto dal sito dell’Esa