Politica

Giuliano Pisapia, dispiace perderlo. Il Pd sta creando il vuoto intorno a sé

Il ritiro dalla scena elettorale di Giuliano Pisapia, tentennante fin dalla nascita del suo “movimento” Campo progressista, con le sembianze dell’anti-leader – che nel nostro paese non ha molta fortuna da una paio di decenni e più – segue quella altrettanto clamorosa dei due “costituenti” Anna Falcone e Tomaso Montanari, promotori “civici” della bella assemblea del Brancaccio, poi naufragata dopo incerta navigazione nell’arcipelago rosso della frammentata sinistra. Certo non è un bel vedere perché sappiamo che il venir meno di queste figure è la rappresentazione plastica della difficoltà dei partiti (o simil-tali) di dialogare con quella società civile che torna molto utile quando occorre mobilitarsi per le battaglie fondamentali della nostra democrazia.

Accadde con l’Ulivo prodiano, prima metamorfosi non riuscita delle due sinistre unificanti: dopo i primi entusiasmi fu presto soffocato da lotte intestine e dai tradimenti delle correnti di ogni genere in cui i notabilati si organizzarono per frenare ogni possibile cambiamento. Accadde così anche per il partito di Antonio Di Pietro, l’Italia dei valori, arenatosi per eccesso di trasformismo di non pochi dei suoi adepti che, dopo essere saliti sul carro vincente dell’ex magistrato, trovarono molto più comodo risalire su altri carri: la gestione personale del movimento, letteralmente chiuso a chiave dal proprietario per mancanza di fiducia nel mondo circostante, aveva di fatto bloccato ogni possibile crescita.

Poi è arrivato il Partito democratico, la “Creatura” per antonomasia a lungo evocata, figlia ancora del progetto prodiano di riformismo liberista – temperato al sole del “new welfare delle opportunità” di blairiana memoria – che doveva realizzare il sogno di un’altra Italia: moderna, competitiva e solidale. Alla fine quel progetto realizzato a tavolino da improbabili alchimisti, il Pd ha prodotto una somma di equivoci, illusioni e disillusioni fino all’avvento del “ragazzo di Firenze” destinato a diventare re ma affetto da tutte le anomalie tipiche del potere: un furbo e maldestro stalinista autocratico, capace di creare intorno a sé il più grande vuoto della storia politica della sinistra che nemmeno Bertinotti poté tanto.

Ora tutto questo sconquasso richiederebbe un ripensamento molto approfondito per capire com’è accaduto che la più grande forza della sinistra in Europa, germinata dal pensiero gramsciano e socialista, che seppe unire intorno a sé le più significative figure intellettuali di tutte le correnti di pensiero ancora negli anni Settanta e Ottanta, si sia ridotta a lottare per non essere il terzo incomodo delle due maggiori compagini politiche del Paese, i M5S e la destra. Un gran bel risultato, non c’è che dire, al quale sarebbe il caso che le nuove proposte in campo non fornissero un ulteriore contributo di miopia autoreferenziale e di improvvida spocchia politicista.