Scienza

Alzheimer, con l’intelligenza artificiale si può diagnosticare dieci anni prima

La scoperta, che arriva dall'università di Bari, è particolarmente importante dato che ad ora la malattia - che colpisce 40 milioni di persone nel mondo, destinate a diventare 135 milioni nel 2050 - può essere diagnosticata solo nel momento in cui il paziente ne mostra i primi sintomi e non esiste nessun test che permetta di "stanarla" prima che si manifesti

Diagnosticare l’Alzheimer dieci anni prima rispetto a quanto avviene ora, grazie all’intelligenza artificiale. È questo il fulcro di uno studio dell’università di Bari pubblicato sul sito Arxiv. Per ora, infatti, la malattia – che colpisce 40 milioni di persone nel mondo, destinate a diventare 135 milioni nel 2050 – può essere diagnosticata solamente nel momento in cui il paziente ne mostra i sintomi. Non esiste nessun test che permetta di “stanare” la malattia prima che si manifesti. Per questo la scoperta dell’università di Bari potrebbe rappresentare in futuro una rivoluzione.

I ricercatori, guidati da Nicola Amoroso e Marianna La Rocca, hanno insegnato ad un algoritmo a discernere tra cervelli sani e malati usando le immagini di 67 risonanze, 38 delle quali di persone con Alzheimer. L’algoritmo è stato poi messo alla prova su un’altra serie di 148 risonanze, di cui 52 da soggetti sani, 48 con Alzheimer e 48 con una lieve disabilità cognitiva che però è evoluta in Alzheimer fino a nove anni dopo. “L’intelligenza artificiale – spiegano gli autori – è riuscita a distinguere un cervello sano da uno con l’Alzheimer con un’accuratezza dell’86%, ed è anche stata in grado di dire la differenza tra cervelli sani e quelli con disabilità lieve con un’accuratezza dell’84%”. La comparsa dei sintomi, infatti, è preceduta da una fase di lieve indebolimento cognitivo: cogliere e interpretare questi cambiamenti è di fondamentale importanza, scrivono i ricercatori, dato che aprirebbe una finestra di opportunità per le terapie.

La scoperta arriva – oltre che a pochi giorni dalla giornata mondiale dell’Alzheimer, il 21 settembre – anche a pochi mesi di distanza dall’appello lanciato dagli scienziati dell’Accademia dei Lincei ai leader della Terra riuniti a Taormina in occasione del G7 dello scorso maggio. Gli scienziati hanno spronato i capi di Stato a intervenire contro la diffusione delle malattie neurodegenerative, attuando, come avviene con il cancro e con l’Aids, “politiche risolute e globali“. L’appello si riferiva in particolare proprio all'”l’epidemia di Alzheimer”, come l’hanno definita gli esperti: la malattia, oltre a riguardare un numero sempre più alto di persone, comporterà “costi per l’assistenza destinati ad aumentare da 6 a 8 trilioni di dollari l’anno”, diventando “un peso devastante per le famiglie”. “Chi è malato non lo sa, i sintomi compaiono solo dopo 15-20 anni – hanno spiegato, a proposito delle diagnosi, gli scienziati dell’Accademia dei Lincei – quando cioè la patologia ha devastato gran parte del patrimonio neuronale. E quando il cervello, che nel corso degli anni ha compensato i danni della patologia rendendola silente, non è più in grado di supplire alle perdite di neuroni”.

A luglio, su Nature, era comparso un altro importante studio sull’Alzheimer. Per la prima volta gli scienziati, del Research council di Cambridge, hanno utilizzato campioni isolati dal cervello di pazienti deceduti per Alzheimer e li hanno analizzati attraverso una nuova tecnica microscopica. In questo modo sono riusciti ad individuare e osservare la struttura della proteina tau, la molecola all’origine della malattia e di altre forme di demenza. Questa scoperta, hanno spiegato i ricercatori, “è uno dei progressi più significativi nell’ultimo mezzo secolo di ricerca, soprattutto in riferimento alla capacità di disegnare nuove molecole con azione terapeutica“. Nel luglio 2015, sempre in tema di diagnosi precoce dell’Alzheimer, un team di ricercatori della Washington University di St. Louis ha scoperto che le variazioni di alcuni biomarcatori permettono di prevedere lo sviluppo della malattia molti anni prima che si manifestino i primi sintomi.

Lo studio dell’università di Bari su ArXiv