Politica

Dopo il flop di Poletti alla Festa dell’Unità, il Pd ha poco da star sereno

Una quindicina di persone ad ascoltare il verbo del renzianissimo Giuliano Poletti. No, non parliamo di un’intima cena tra amici, magari tra vecchie glorie della cooperazione. Il riferimento è a un dibattito pubblico, andato in scena pochi giorni fa, in occasione di una delle più solide feste del Partito democratico, la Festa dell’Unità di Modena. Segno dei tempi, si dirà. Che per il partito comandato da Matteo Renzi sono davvero duri. In particolare, nelle aree geografiche storicamente rosse e ora sempre più rosé, come quella emiliana. Dove la scissione e la nascita dell’ennesima Cosa Rossa, per ora senza capo né coda, ha avuto anche l’effetto di raffreddare sensibilmente il clima di festa attorno alle consuete kermesse di fine estate organizzate dal Pd.

Ma nessuno, onestamente, si sarebbe aspettato che dal disincanto che si sta facendo strada nell’originario zoccolo duro del Pd potesse scaturire un simile “schiaffo”. Per giunta assestato a uno dei più influenti, discussi e, aggiungiamo, discutibili ministri. “Mai vista una cosa simile“, commentava, con una certa amarezza, un vecchio militante. Uno spettacolo imbarazzante, che nella testa di tanti “capetti piddini” a cui in tempo reale è giunta la notizia della debacle organizzativa, deve aver suonato come un inatteso campanello d’allarme. L’ennesimo, per la verità, di una serie inanellata dopo la sconfitta al referendum costituzionale. Segnali che preoccupano, considerando l’approssimarsi di appuntamenti elettorali decisivi. I cui esiti, se insoddisfacenti, potrebbero avere un effetto devastante sul Pd a trazione renziana. Con la conseguente definitiva archiviazione di una stagione politica inaugurata con la vittoria di Matteo Renzi alle primarie del 2013.

(Video tratto da La Pressa Modenese; la versione integrale è visibile anche sul loro canale Youtube a questo link)

Chiariamoci, il mancato bagno di folla ad un ministro che a Modena è di casa – Poletti è emiliano e la sua storia affonda nel movimento cooperativo di queste terre – , in altri tempi, non sarebbe mai potuto accadere. Sarebbero accorse ad ogni costo le obbedienti e ordinate truppe della Sinistra, in altri tempi. Ossia prima che il Pd, plasmato forzosamente dalle frustate di Renzi, liquefacesse il proprio retroterra politico e culturale per assumere le vesti di un partito di opinione. Né più né meno di un comitato elettorale, fondato naturalmente sulla persona del capo. E che da mesi è in balia di scelte ondivaghe e furbesche, come quella, di queste ore, tesa a sancire un’alleanza elettorale con Angelino Alfano, berlusconissimo pentito. Un’intesa che farà forse gioire la variegata gamba centrista del Pd, ma che è un cazzotto da ko. per chi si richiama ad altre famiglie politiche confluite nel partito che tra poche settimane compirà dieci anni di vita. Tutto ciò avviene, per giunta, indipendentemente da un disegno strategico e da un progetto politico di respiro capace di rappresentare o almeno delineare sommariamente un’idea di Paese.

Il ceffone che simbolicamente i militanti hanno voluto dare ad uno degli emblemi del renzismo, decidendo di starsene a casa davanti alla tv o al ristorante della festa a mangiar gnocco fritto e tigelle, è manifestazione del dissenso. Verso la gestione del partito, considerato da Renzi come fosse cosa propria e non un patrimonio collettivo.

È bastato parlare con alcuni esponenti di primo piano del Pd emiliano a cui abbiamo chiesto una chiave di lettura di quanto accaduto, per capire che il bersaglio mediato del “deserto dei Tartari” nella sala che ha ospitato il ministro Poletti, è Matteo Renzi. Che, assieme alla ristretta cerchia di adoranti cicisbei di cui ha deciso di circondarsi, ha preso scientemente a calci la storia del Pd, lacerato anime e radici politiche, disorientando e debilitando sempre più, in particolare, il campo alla Sinistra del partito. Quel campo che per decenni ha garantito consenso, presenza fisica in ogni occasione pubblica, organizzazione, presidio del territorio e anche buon governo in tante realtà locali. Ma soprattutto classe dirigente. Quella di cui è drammaticamente deficitario, a Roma come in periferia, il Pd in salsa renziana. Popolato e dominato com’è da gerarchi e gerarchetti che, ha scritto tempo fa Roberto Robecchi, “nel vecchio Pci avrebbe a stento pulito i vetri della sezione, e oggi invece vanno in giro ostentando il cappello con le piume da statista“.

Si può forse definire “classe dirigente” un ministro che prende letteralmente per i fondelli milioni di giovani disoccupati, invitandoli a cercare lavoro giocando a calcetto invece che spedendo ovunque il proprio curriculum vitae? Può considerarsi classe dirigente lo stesso ministro, che non si cura di centinaia di migliaia di giovani costretti a lasciare l’Italia chiarendo che “questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi”?

Il vero punto, assai dolente, è proprio questo: una drammatica mediocrità diffusa, un livellamento verso il basso della qualità dell’azione politica. In definitiva, una carenza di statura politica. Senza la quale si può esser buoni a dispensare battute o far qualche comparsata in tv, ma non a spremersi le meningi. Esercizio, questo, che un tempo, nel vecchio Pci, così come nella tanto vituperata Dc, era il punto di partenza naturale e necessario per mettere a fuoco nodi sociali ed economici del Paese. E per provare almeno a confezionare una vision, un’idea strutturata di governo delle complessità.

@albcrepaldi