Cervelli in fuga

Biologo a Montreal. “In Italia lavoravo come un mulo per arrivare a stento a fine mese”

Valerio Piscopo, 33 anni, in Canada collabora col Montreal Neurological Institute, uno dei centri di punta per le malattie neurodegenerative e i tumori al cervello. "In Italia i datori di lavoro vedono i neolaureati come manodopera da sfruttare e non come forza da formare"

“L’Italia? È un bellissimo Paese, ma solo per ricchi”. Parola di Valerio, ricercatore campano con un dottorato in Biologia Applicata. Da tre anni il suo laboratorio è quello di MontrealCanada. “Quando mi è stato proposto un posto qui ho accettato subito, considerando anche le scarse possibilità professionali in Italia”, racconta. Valerio Piscopo, 33 anni, è originario della provincia di Napoli. Ha una laurea in Biotecnologie all’Università Federico II, un master alla Cattolica di Roma e uno stage in un’azienda farmaceutica: in più, un dottorato al Cnr, all’Istituto di Genetica e Biofisica. Nel 2014 arriva però il trasferimento in Canada. “Quando sono partito ero uno dei tanti ragazzi arrabbiati a morte con l’Italia”, ricorda con un sorriso amaro.

Oggi Valerio lavora e collabora con il Montreal Neurological Institute, uno dei centri di punta per le malattie neurodegenerative e i tumori al cervello. La giornata inizia alle 8.30, quando insieme al supervisore si organizzano gli esperimenti e si valutano gli obiettivi. La differenza rispetto all’Italia è che qui si spende molto più tempo a discutere sul progetto, a programmare accuratamente la linea sperimentale, e questo consente di lavorare in modo più organizzato e meno stressante. Ma anche più produttivo. “In Italia spesso uscivo dal laboratorio alle 10 di sera e, spesso, con risultato negativo. E cioè esperimento fallito”.

In Italia spesso uscivo dal laboratorio alle 10 di sera e, spesso, con risultato negativo. E cioè esperimento fallito

In ufficio si lavora tanto e a stretto contatto con persone di nazionalità diverse, che finiscono poi per diventare una piccola famiglia. “Mi sono trovato a stringere legami che valicano ogni barriera di tempo, spazio, lingua o appartenenza culturale”, spiega Valerio. E poi c’è quella stupenda sensazione della scoperta: dopo aver sbattuto la testa per mesi su una teoria, dopo esperimenti falliti, tentativi su tentativi e frustrazioni varie, arriva l’esperimento che conferma la tua teoria, con tanto di risultati. “È una delle emozioni più belle che si possano provare – racconta il ricercatore campano – Noi viviamo letteralmente per momenti come quelli”.

A Montreal ci sono molte possibilità di svago, anche quando le temperature sono insostenibili e la neve è alta diversi metri: “Io amo l’Italia, la sua cultura, la sua gente: ma sono dovuto scappare per capirlo – racconta Valerio – La mia generazione non riesce ad apprezzarne le bellezze né accedere ai comfort basilari. Io lavoravo come un mulo fino a sera tarda per arrivare a stento alla fine del mese”. Le differenze stanno anche nel mondo accademico. “L’eccesso di burocrazia in Italia trasforma un ricercatore in una specie di contabile, per cui invece di concentrarsi a risolvere problemi scientifici deve passare le sue giornate a compilare scartoffie e rendiconti. Qui in Canada ci pensano gli administrators”, continua.

L’eccesso di burocrazia in Italia trasforma un ricercatore in una specie di contabile

Ciò che manca, insomma, è una connessione efficace e sistematica tra il mondo accademico e quello del lavoro. “In Italia i datori di lavoro, aiutati da un sistema legislativo quanto meno dubbio, vedono i neolaureati come manodopera da sfruttare e non come forza lavoro da formare – aggiunge –. Qui in Canada il sistema è molto più meritocratico, se dimostri che sei bravo puoi fare carriera anche in tempi brevissimi, non ci sono scuse che tengano”.

Non bisogna dimenticare, però, i lati meno scontati della vicenda. Come le materie umanistiche, che “qui tendono ad essere pericolosamente sottovalutate – racconta Valerio – rischiando di creare un esercito di robot superspecializzati ma poco flessibili”. O come l’estrema focalizzazione sulla ricerca del lavoro, producendo un livello di cultura generalmente basso e una classe lavorativa poco flessibile: “Ci si tende a fossilizzare nei propri ruoli e ad avere una generale carenza di problem solving, cosa in cui noi italiani (e napoletani in particolare) eccelliamo”, sorride.

Tornare? La voglia c’è, ma le condizioni al momento non lo permettono. “Vorrei, certo – spiega Valerio –. Ma vorrei farlo in un Paese che mi consenta di vivere bene e che non mi costringa a invertire l’equazione ‘lavorare per vivere’ in ‘vivere per lavorare e pagare i conti’. Valerio è determinato a continuare a fare ricerca e sogna di poter diventare professore, un giorno. La speranza in futuro è poter tornare in un’Italia cambiata, e contribuire da dentro a trasformarla di nuovo in un Bel Paese: “Sì, vorrei dare lustro alla mia nazione avendo la possibilità di lavorarci come si deve. Ma la mia è più una speranza che una possibilità concreta. Il fatto è che io, come la mia generazione in generale, mi sono abituato a non pensare troppo al futuro – conclude – Mi concentro sul presente”.