Scienza

Buchi neri, italiane le Indiana Jones delle stelle. Il loro studio notato dalla Nasa

Cinque sono precarie, tre hanno meno di 30 anni. Edwige Pezzulli, Raffaella Schneider, Rosa Valiante, Maria Orofino, Simona Gallerani e Tullia Sbarrato hanno attirato l'attenzione dell'Agenzia spaziale americana con il loro studio sui buchi neri nell'universo primordiale

Sono le Indiana Jones delle stelle. E sono italiane, la metà sotto i 30 anni (la più giovane ne ha 27). Edwige Pezzulli, Raffaella SchneiderRosa Valiante, Maria Orofino, Simona Gallerani e Tullia Sbarrato sono le sei astrofisiche autrici di una ricerca sui buchi neri nell’universo primordiale, pubblicata a gennaio sul Monthly notices of royal astronomical society, una delle riviste scientifiche più importanti nel campo astronomico. Lo studio, si legge su La Repubblica, ha attirato anche l’attenzione della Nasa, che ha invitato una delle ricercatrici a collaborare sul blog per raccontare cosa succedeva centinaia di milioni di anni fa nell’universo. L’indagine rientra nei progetti di First, team finanziato dallo European Research Council. Ne fanno parte Edwige, Raffaella e Rosa, mentre Maria, Simona e Tullia – le prime due lavorano alla Normale di Pisa, Tullia all’Università di Milano Bicocca – sono entrate nel team di ricerca in un secondo momento, per interpretare i dati delle osservazioni.

“Solo al momento di inviare il lavoro ci siamo accorte che le firme erano tutte quante di donne“, ha raccontato Raffaella a La Repubblica. “Non ci avevamo fatto nemmeno caso”. I tempi sono cambiati, perché “vent’anni fa mi capitava di andare a convegni nei quali le donne si potevano contare sulle dita di una mano”, mentre ora “è molto diverso“. E lo sa bene Raffaella, che nel 1996 divenne la prima dottoranda in Italia a poter “congelare la borsa per un anno per la maternità. Si poteva fare – racconta la fisica – per il servizio militare, ma non era previsto per una ricercatrice mamma”. Professoressa associata alla Sapienza, Raffaella è l’unica ad avere un contratto fisso, mentre le sue compagne di ricerca sono tutte precarie.

Del progetto First poi fanno parte la 29enne Edwige, dottoranda alla Sapienza con un passato da thai boxer e rugbista, e Rosa, 38 anni, che racconta di aver lavorato con la bimba appena nata in braccio. “Scrivevo e rispondevo a mail e chat con le colleghe usando una mano sola – spiega – ma questo impegno è ripagato: proprio grazie al progetto First ho avuto il rinnovo del contratto per un altro anno”. “Sono convinta – dice Edwige – che la chiave del progresso risieda nella diversità e nel confronto tra più punti di vista. Non solo differenza di genere, dunque, ma anche occhi e culture diversi. In questo senso abbiamo portato la sguardo femminile su un problema sempre affrontato da uomini”.

Nel loro studio, le sei ricercatrici hanno osservato “le attività di buchi neri quando l’Universo aveva meno di 800 milioni di anni”, spiega Pezzulli. Per farlo hanno utilizzato “le osservazioni dello Sloan digital sky survey e del telescopio spaziale Chandra“, che permettono di guardare molto in lontananza. Un elemento fondamentale, perché “guardando lontano infatti è come se guardassimo indietro nel tempo”. In questo modo hanno potuto spiegare che non si riescono a vedere i buchi neri formatisi quando l’universo era “appena nato” perché “il loro accrescimento, il periodo in cui aumentano di dimensioni divorando materia ed emettendo radiazioni, è molto rapido e si spegne in fretta”.

Lo studio sul Monthly notices of royal astronomical society