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Afghanistan, Usa pronti a inviare 3mila soldati. I Talebani controllano il 40% del Paese. “Rischio che diventi nuovo Iraq”

Lo scrive il Washington Post, citando fonti del Pentagono. Secondo gli ultimi dati dello "Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction", i Taliban controllano o esercitano la propria influenza su quasi la metà dei distretti, record dall'inizio della guerra nel 2001. Thomas E. Gouttierre, ex direttore del Centro per gli Studi dell’Afghanistan all’Università del Nebraska: "Fallimento di Bush e Obama"

La Casa Bianca è pronta a inviare 3mila militari in Afghanistan per “iniziare a vincere” la guerra nel Paese, scrive il Washington Post citando fonti del Pentagono. I soldati a stelle e strisce si andrebbero ad aggiungere agli 8.300 presenti su territorio afghano dopo la ritirata ordinata dall’ex presidente Barack Obama nel 2011. Le violenze e gli attentati firmati dai gruppi terroristici non sono mai veramente diminuiti, con il 2016 che ha fatto registrare un record di vittime civili e i Taliban che controllano o hanno influenza sul 40% dell’intero territorio, numeri mai raggiunti dall’inizio del conflitto nel 2001. Per questo Thomas E. Gouttierre, ex direttore del Centro per gli Studi dell’Afghanistan all’Università del Nebraska e consigliere dell’ex Presidente Hamid Karzai, non esita a definire la guerra nel Paese un “fallimento al quale è bene che la nuova amministrazione ponga rimedio”. Così, dopo il bombardamento della base militare siriana, il lancio sempre in Afghanistan della Moab, la “Madre di tutte le bombe”, e la nuova tensione con la Corea del Nord, Donald Trump si trova nuovamente a infrangere le promesse fatte in campagna elettorale: meno interventismo in politica estera, America First.

Il fallimento delle politiche attuate in Afghanistan negli ultimi anni è tutto nei numeri relativi al 2016. Secondo gli ultimi dati dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, i Taliban controllano o esercitano la propria influenza su oltre il 40% dei distretti. Un altro record dal 2009, quando la missione dell’Onu nel Paese (Unama) ha iniziato a raccogliere dati, è quello delle vittime civili: 3.498 morti e 7.920 feriti nel 2016. “Questi numeri – dice il docente – raccontano un fallimento, quello delle amministrazioni Obama e Bush che non sono state in grado di creare una partnership forte con il governo afghano e le altre realtà del Paese. Così, quando si è deciso di ritirare le truppe, ecco che movimenti jihadisti hanno riconquistato terreno. Ben venga, quindi, un intervento deciso da parte degli Stati Uniti volto a normalizzare la situazione e a rinforzare la cooperazione con il governo afghano, nostro alleato”. Un intervento che, spiega il professore, deve avere come primo obiettivo quello di riunificare il Paese contro le “ingerenze estremiste provenienti dal Pakistan, senza parlare di guerra allo Stato islamico che, in Afghanistan, è composto solo da una piccola costola dei Taliban che ha dichiarato fedeltà al Califfato”.

L’intento dichiarato dagli ufficiali americani al Washington Post non sarebbe quello di intraprendere un nuovo corso militare nel Paese, ma di aumentare la pressione sui gruppi ribelli afghani così da costringerli a sedersi al tavolo dei negoziati. Per fare ciò, la proposta, che dovrà ottenere l’approvazione del presidente presumibilmente entro il 25 maggio, prevede la possibilità per gli Usa di sferrare attacchi aerei contro le postazioni Taliban e una maggiore libertà d’azione delle truppe “on the ground” rispetto a quanto imposto dall’amministrazione Obama. “L’obiettivo americano – continua Gouttierre – è e deve essere quello di coinvolgere il più possibile i gruppi locali. Con una rinnovata cooperazione politica e militare con il governo di Kabul e accordi con le altre realtà del Paese, ci potremmo concentrare sul vero sostenitore dei gruppi terroristici afghani: il Pakistan. Responsabile della maggior parte degli attacchi nel Paese è la Rete Haqqani che opera soprattutto da lì. Questo Paese ha da sempre una politica ambivalente per quanto riguarda la lotta al terrorismo: da una parte lo combatte in patria, dall’altra lo sostiene nei Paesi confinanti”.

In questa ottica, continua il professore, la decisione di ritirare le truppe dal Paese ha messo a rischio tutto il lavoro fatto dall’inizio del conflitto, nonostante questo sia ancora insufficiente. “Conosco il presidente Ashraf Ghani, è stato mio studente – continua l’esperto – non per questo voglio difenderlo: il Paese ha conosciuto un’innegabile sviluppo del proprio sistema organizzativo e infrastrutturale, ma è comunque troppo poco per pensare che possa andare avanti sulle proprie gambe. In questo Ghani ha però colpe limitate: si è trovato a capo di un governo che ha conosciuto un sempre minore sostegno internazionale, con la pressione di gruppi di potere interni ed esterni. Lasciare l’Afghanistan in queste condizioni lo espone al rischio di diventare un nuovo Iraq”.

È forse con l’obiettivo di creare coesione interna al Paese che, nell’ambito degli accordi di pace sottoscritti nel 2016, si è permesso il ritorno a Kabul del signore della guerra e leader dell’Ḥezb-i-Islāmī, Gulbuddin Hekmatyar, dal suo esilio. Il “Macellaio di Kabul” è tornato nella capitale scortato da decine di auto con a bordo miliziani armati fino ai denti con l’intento, a suo dire, di “terminare questa guerra e salvare il Paese dalla crisi”. “Provare a coinvolgerlo in un processo di riunificazione può essere una buona idea – commenta Gouttierre che frequenta l’Afghanistan dal 1964 e che, come riporta il giornalista investigativo Robert Dreyfuss in America’s Devil’s Game, in passato è stato criticato perché avrebbe avuto contatti con i miliziani grazie all’attività svolta in funzione anti-sovietica negli anni ‘80 – ma conosco abbastanza bene Hekmatyar: è una persona egoista e assetata di potere. Ed è proprio quello che è venuto a cercare a Kabul, il potere”.

Questa frammentazione interna al Paese ha così costretto Trump a infrangere nuovamente la promessa di un minore interventismo in politica estera in nome di un maggiore interesse perle questioni interne agli Stati Uniti. E non è la prima volta. La politica dell’“America First” era già stata messa da parte in Siria, con l’ordine di bombardare a base militare governativa di Khan Sheikoun in risposta all’attacco chimico sui civili a Idlib. Situazione ripetutasi con lo scambio di accuse e minacce tra l’inquilino della Casa Bianca e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un che ha interrotto anni di “pazienza strategica” voluti dall’amministrazione Obama. Fino all’ultimo atto di forza proprio in Afghanistan, con il lancio il 13 aprile della Moab, la madre di tutte le bombe, contro postazioni e tunnel utilizzati dai miliziani di Isis. Attacchi, quelli di aprile, che hanno portato anche all’uccisione del leader delle bandiere nere in Afghanistan: Sheikh Abdul Hasib.

Twitter: @GianniRosini