Diritti

Carceri, vi spiego come vivono i detenuti islamici

Vivendo in contesti che, piaccia o meno, si fanno sempre più multietnici, è naturale che capiti di relazionarsi con persone di origini diverse dalla nostra. Col senno di poi, sembra chiaro che la “scuoletta” in cui siamo cresciuti fosse un’eccezione: tutti in piedi a recitare la preghiera prima e dopo le lezioni.“Il presidente, la croce, il professore”, cantava Venditti. Una monocultura cattolica più unica che rara. Complici le semplificazioni dei media, rispetto a tutti coloro che vengono da paesi a maggioranza islamica ci tocca sentir risuonare qua e là, come fosse un mantra, quella pessima supposizione della “guerra di civiltà”. Ma poi, gli individui con cui parliamo realmente sembrano principalmente presi da problemi di conduzione della vita quotidiana, dai figli alle bollette, dai disservizi alla sicurezza, molto simili ai nostri. Altro che guerre sante.

Ognuno è “differentemente diverso“, per dirla col premio Nobel per l’economia Amartya Sen, ma tutti quelli con cui parliamo appaiono molto più “laici” di quel che ci viene raccontato. “È perché tendiamo a rapportarci solo con gente di livello superiore alla media”, osserva qualcuno. E mi chiede: “Cosa succede in carcere? C’è la radicalizzazione?”. Quel che posso dire è che nella mia ormai ventennale esperienza a Rebibbia, dove finiscono (solo) gli ultimi della gerarchia sociale, i molti magrebini, albanesi, arabi in genere, che mi è capitato di conoscere mi sono parsi tutti concentrati, più che sulle fatwe lanciate dai sultanati, sul modo più efficace di uscire in libertà il prima possibile, ritrovare le famiglie, inventarsi un lavoro, una vita.

E se c’è la tendenza a fare gruppo, per cui si trovano comunità di marocchini come di romeni, credo sia semplicemente per l’esigenza che tutti noi abbiamo di ritrovarci in forme identitarie per affrontare la quotidianità. Lo stesso che fanno, suppongo, gli italiani detenuti in Spagna o, riducendo la scala, i romani a Verona, i napoletani e calabresi a Bollate. È un atteggiamento naturale, banalmente umano, che trova ampi riscontri anche fuori dal carcere: è così che gli italiani in Australia si ritrovano al club (o purtroppo davanti a Rai 1) e a New York ci sono Little Italy e Chinatown. È solo questione di condividere le esperienze partendo da una cultura comune che aiuta a trovare l’orientamento.

Non so quanto questo mio voler semplificare sia viziato dal retaggio di una fede nella ragione e nel progresso di stampo vetero-illuminista, che vedeva l’inarrestabile ascesa verso la secolarizzazione propagarsi a tutta l’umanità, a partire da quei rari sistemi che aspirano a dotarsi di forme democratiche. In ogni caso, sono convinto che sia inutile continuare a giudicare quel che succede in Europa e nel mondo in termini di minacce terroristiche come frutto di matrici etnico-religiose, e che il tutto andrebbe più correttamente ricondotto alle radici socio-economiche che meglio ne spiegano i fondamenti e gli sviluppi.