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Trapani, il senatore D’Alì candidato sindaco dopo prescrizione per concorso esterno: “Rafforzava la mafia fino al 1994”

Nel settembre del 2016 la corte d'appello di Palermo ha confermato l'assoluzione in primo grado, dichiarando prescritte le accuse per le contestazioni precedenti al gennaio del 1994, nei confronti dell'esponente di Forza Italia. In attesa della Cassazione l'ex sottosegretario all'Interno si candida come primo cittadino nella sua città. Nelle motivazioni del processo di secondo grado i giudici spiegano che "le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia hanno confermato la piena disponibilità di D'Alì nei confronti dei massimi esponenti di Cosa nostra trapanese"

Per la corte d’appello di Palermo ha contribuito al rafforzamento di Cosa nostra almeno fino al 1994. E lo ha fatto “con coscienza e volontà“. Una serie di collaboratori di giustizia, invece, parlano della sua “piena disponibilità nei confronti dei massimi esponenti della mafia trapanese”. Una disponibilità che non è legata ad alcun patto siglato con i padrini, i quali, in ogni caso, gli hanno dato il loro “appoggio elettorale” ai tempi della prima candidatura al Senato.

Il tempo, però, deve essere alleato di Antonio D’Alì, senatore di Forza Italia da ventidue anni, lungamente accusato dai magistrati di concorso esterno a Cosa nostra. È il tempo che ha garantito all’ex sottosegretario all’Interno di mettersi in salvo dall’eventuale condanna a 7 anni e 4 mesi chiesta dalla procura generale di Palermo. E infatti nel settembre del 2016 i giudici della corte d’appello del capoluogo siciliano hanno confermato quanto già deciso dai colleghi del primo grado: D’Alì va prescritto per i fatti precedenti al gennaio del 1994, assolto per quelli successivi. Una situazione processuale sulla quale adesso dovrà esprimersi la corte di Cassazione, alla quale la procura generale del capoluogo siciliano ha fatto ricorso.

Trapani, città berlusconiana – Nel frattempo, però, il senatore ha deciso di dare una scossa alla sua vita politica: si è candidato sindaco della sua città in vista delle elezioni amministrative del giugno prossimo. La notizia era nell’aria da settimane, anzi mesi. Si rincorreva inafferrabile tra i vicoli che dal porto s’infilano verso il centro storico, spinta da un vento che da queste parti soffia da due mari. E alla fine è proprio da un hotel sul lungomare che quella voce ha acquistato i crismi dell’ufficialità. “Trapani è ferma da dieci anni“, ha sentenziato il senatore di Forza Italia, presentando la sua candidatura. E sorvolando su un fatto fondamentale: Trapani, la città ferma da dieci anni, è amministrata dal partito di D’Alì da venti. Prima con una coalizione di centrodestra, poi con i due mandati del suo ex sodale Girolamo Fazio (candidato a sua volta dopo 5 anni di stop), quindi con l’attuale sindaco Vito Damiano. A scegliere, appoggiare e infine bruciare ogni primo cittadino era sempre lui: Antonio D’Alì, l’amico di Silvio Berlusconi tornato alla base dopo un rapido tradimento al seguito di Angelino Alfano.

Il senatore scende in campo – “Trapani è ferma da dieci anni da quando in città portammo l’America’s Cup. Quell’evento avrebbe dovuto rappresentare un punto di partenza e invece la città è ferma da allora”, insiste su livesicilia.it il senatore, il portamento tipico di chi in Sicilia viene da una nobile famiglia e un volto ben rasato orfano della storica barbetta ben curata. L’ha tagliata definitivamente nel 2013: un fioretto da onorare in caso di assoluzione, aveva detto. E in effetti il parlamentare siciliano dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa è stato assolto. Solo per il periodo successivo al gennaio del 1994, però. Perché per il periodo precedente, i giudici parlano di una “accertata condotta illecita“. “Visto che la Cassazione dovrà esprimersi soltanto sulla legittimità delle sentenze, vorrei sottolineare che per tutto il periodo che va dal 1994 in poi, non è stata trovata alcuna prova reale a carico del senatore. Lui evidentemente ritiene di avere la coscienza pulita: per questo si candida”, dice l’avvocato Gino Bosco, legale di D’Alì. E per il periodo precedente, invece, quello sui cui è scattata la prescrizione? “L’unico fatto riconosciuto a D’Alì – continua l’avvocato – è lontano nel tempo ed è stato ricostruito soprattutto grazie alla nostra attività difensiva. La corte gli ha dato un’interpretazione assolutamente diversa da quella nostra, ma riconosco che quando certi cognomi vengono pronunciati in un’aula di giustizia i magistrati possano dargli un valore che magari in altri contesti non avrebbero”.

Il terreno di Riina e quella vendita fittizia –  A quali cognomi si riferisce l’avvocato? Sono i magistrati della corte d’appello di Palermo a spiegarlo nelle motivazioni della sentenza depositate nel dicembre del 2016. “È provato nel presente procedimento che Matteo Messina Denaro predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Francesco Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina. Necessità di creare una provvista che potesse giustificare l’acquisto da parte dello stesso Francesco Geraci”, annotano i giudici Daniela Borsellino, Enzo Agate e Michele Calvisi. In pratica Messina Denaro voleva donare a Riina un terreno in contrada Zangara, di proprietà della famiglia D’Alì. Lo stesso fondo dove suo padre – lo storico boss di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro – lavorava come campiere. Solo che per evitare possibili futuri sequestri ai danni di Riina, l’ultima primula rossa di Cosa nostra chiese ad uno dei suoi fedelissimi, in quel momento incensurato, di acquistare formalmente quel terreno da D’Alì. Si trattava, però, di un acquisto fasullo visto che – per i giudici – il futuro senatore restituì poi ai mafiosi i soldi incassati dalla cessione del terreno.

“Agì in maniera cosciente e volontaria” – “D’Alì – spiegano i giudici – acconsentì ad operare il trasferimento fittizio del bene senza mai relazionarsi con Francesco Geraci essendo ben consapevole che si trattasse soltanto di un prestanome e si fece trovare pronto a restituire il denaro in prima persona o per il tramite del fratello, ogniqualvolta Matteo Messina Denaro invitò gli stessi Geraci a presentarsi presso la Banca Sicula. L’anomalia di queste restituzioni dimostra che Antonio D’Alì agì in maniera cosciente e volontaria, comprendendo che il proprio fatto era volto alla realizzazione dell’operazione architettata dai massimi esponenti di Cosa nostra e volendovi prestare il proprio contributo”.

I voti per il senatore – Una vicenda, quella della cessione fasulla del terreno, che per i magistrati è “la cartina di tornasole del rapporto, ritenuto comprovato dal primo giudice, intrattenuto dall’imputato con i vertici dell’associazione mafiosa almeno fino al 1994 essendo stato lo stesso ampiamente illustrato dalle concordi dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che hanno confermato la piena disponibilità di D’Alì nei confronti dei massimi esponenti di Cosa nostra trapanese, che gli consenti, peraltro di ottenere dagli stessi l’appoggio elettorale in occasione delle consultazioni del 1994, quando venne eletto senatore”.

E la piovra votò Forza Italia – Nelle 65 pagine di motivazioni della sentenza d’appello, poi, i giudici ricordano le dichiarazioni di Tullio Cannella, “il quale ha espressamente affermato che Vincenzo Virga (il boss mafioso di Trapani, ndr) aveva dapprima indicato Antonio D’Alì tra le persone da coinvolgere nella nascita di Sicilia Libera“, e cioè il partito direttamente emanazione di Cosa nostra ideato da Leoluca Bagarella. Poi dopo il fallimento del progetto di Sicilia Libera, “sempre Virga decise di convogliare i propri voti su Forza Italia, rendendo evidente l’appoggio elettorale che poi l’imputato ricevette una volta inserito in lista per l’elezione al Senato. Tanto è vero che tale appoggio è coerente pure con quanto affermato da Vincenzo Sinacori e Antonio Giuffrè, i quali hanno dato atto in quegli anni del rapporto fiduciario instaurato da D’Alì con i massimi esponenti di Cosa nostra”.

I D’Alì e i Messina Denaro – Nelle carte un passaggio è dedicato alle dichiarazioni di Maria Antonietta Aula, l’ex moglie del senatore che aveva raccontato al Fatto Quotidiano dei rapporti tra i marito e la famiglia Messina Denaro, ritenuta però inattendibile dai giudici del processo di primo grado. “La deposizione della Aula è stata improntata alla massima genuinità e lealtà, non potendosi condividere il giudizio di inattendibilità espresso dal primo giudice, per le discrasie rilevate con altre fonti di prova che appaiono, invero, di scarsa rilevanza processuale”, scrivono invece i magistrati della corte d’appello. I quali poi ripercorrono i passaggi fondamentali dei ricordi della Aula. “Quando si sposò Rosalia, figlia di Francesco Messina Denaro, con Filippo Guttadauro (noto esponente dell’associazione mafiosa), Antonio D’Alì e la Aula (ancora fidanzati) presenziarono, mentre al matrimonio della Aula e dell’imputato la famiglia Messina Denaro e i coniugi Guttadauro non furono invitati ma fecero pervenire ugualmente un regalo ed, in occasione della morte del padre della Aula, i predetti inviarono un telegramma di condoglianze”.

I voti della mafia non sono reato –  Solo che dopo l’episodio della falsa vendita del terreno di D’Alì agli uomini di Cosa nostra i giudici non hanno riscontrato più alcun reato. “L’accertata condotta illecita posta in essere dall’imputato in occasione della compravendita del fondo non risulta seguita da alcuna condotta che possa essere significativamente assunta come sintomatica della volontà dell’imputato di permanere, sia pure come extraneus, nell’associazione mafiosa, fornendo un contributo al rafforzamento della stessa”. Neanche l’appoggio elettorale “fornito all’imputato dall’associazione mafiosa in occasione delle elezioni al Senato del 1994, anche in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso che consentisse, da un canto, all’odierno imputato di raggiungere lo scranno del Senato attraverso l’appoggio degli esponenti di Cosa nostra”. Come dire: visto che i berlusconiani presero una valanga di voti, D’Alì non aveva bisogno di siglare un patto con i mafiosi, che lo votarono di loro spontanea volontà.

Prescritto e innocente – Poi dopo l’elezione a Palazzo Madama nel 1994, “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa”, per i giudici non è provato che D’Alì continuò ad avere dei legami con Cosa nostra, dopo la sua entrata in Senato. “Le condotte oggetto di contestazione non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. È per questo motivo che D’Alì è stato assolto. E adesso si candida a guidare la sua città.

Twitter: @pipitone87