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Hong Kong, una donna governatrice. Carrie Lam scelta da Pechino tentò mediazione con il movimento degli studenti nel 2014

Il comitato di circa 1200 notabili che sceglie il leader di Hong Kong le ha dato 777 voti contro i 365 del suo principale sfidante, John Tsang Chun-wah, 66 anni. Nel 2014 fu lei a incontrare i rappresentanti degli studenti in lotta, in un tentativo fallito di mediazione e ricomposizione. Guidò la task force che nel 2014 elaborò quella riforma elettorale che avrebbe dovuto dare il suffragio universale poi bocciata

Quando nel 2012 si avvicinavano le elezioni che avrebbero fatto di Leung Chun-ying il Chief Executive – governatore – di Hong Kong, l’allora premier cinese Wen Jiabao ci tenne a sottolineare che il nuovo “amministratore delegato” della Zona Amministrativa Speciale avrebbe dovuto avere soprattutto il sostegno della maggioranza degli hongkonghini. Cinque anni e un movimento degli ombrelli dopo, le priorità di Pechino sono leggermente cambiare. Per essere un candidato papabile nelle elezioni che si sono tenute domenica, bisognava innanzitutto dimostrare “amore per la Cina e Hong Kong”, fiducia da parte del governo centrale, capacità di governare e, buon ultimo, il sostegno della cittadinanza. La retrocessione in quarta posizione del consenso rivela il solco che si è creato tra la Cina continentale e una buona fetta dei 7,3 milioni di cittadini di Hong Kong.

Ci voleva dunque qualcuno che sistemasse le cose, poi si potrà riparlare di consenso. Questa figura è stata identificata dalla leadership cinese in Carrie Lam Cheng Yuet-Ngor, 60 anni, già Prima segretaria (Chief Secretary) nella precedente amministrazione, cioè la numero due che come da previsioni ieri è diventata la numero uno. Il comitato di circa 1200 notabili che sceglie il leader di Hong Kong le ha dato infatti 777 voti contro i 365 del suo principale sfidante, John Tsang Chun-wah, 66 anni. È la prima governatrice donna.

Non che Tsang fosse anti-establishment, nella precedente amministrazione era stato segretario alle Finanze. Ma Carrie Lam aveva da tempo incassato il sostegno di Pechino. In questa fase, alla Cina non serve infatti un tecnocrate esperto di questioni economiche, bensì una figura politica capace di rimettere insieme i cocci sparsi dalla precedente amministrazione, quella del recordman di impopolarità Leung. Visto poi che le elezioni continuano a essere limitate al comitato elettorale di cui sopra, legato a doppio filo con la Cina continentale, era difficile che ci fossero sorprese.

Carrie Lam ha avuto molto a che fare con quanto successo negli ultimi cinque anni ma, a differenza di Leung Chun-ying, non ne ha portato le conseguenze. Fu proprio lei a guidare la task force che nel 2014 elaborò quella riforma elettorale che avrebbe dovuto dare il suffragio universale a Hong Kong. Il disegno venne poi bocciato a inizio 2015 per l’opposizione dei Pan-democratici all’interno del LegCo, il parlamentino locale. Ma a renderlo indigeribile ci furono due eventi. Prima di tutto, lo “schema del 31 agosto” (2014) – cioè le linee guida inviate da Pechino sulla riforma elettorale – che introduceva, sì, il suffragio universale per eleggere il Chief Executive, ma limitava i candidati a quelli scelti dal solito comitato elettorale filo-Pechino. Insomma: tutti votano, ma solo per candidati pre-filtrati.
Si trattava certo di un grandissimo passo avanti rispetto al sistema politico in vigore fin dai tempi del domino britannico (molti dimenticano infatti che Londra non concesse mai libere elezioni a Hong Kong), ma molto di meno rispetto alle aspettative della componente democratica all’interno della società hongkonghese.

Il secondo evento fu quindi il movimento degli ombrelli, che durò da settembre a dicembre di quel 2014 e fu scatenato proprio da quella intromissione di Pechino nelle vicende della Zona Amministrativa Speciale. Anche il quel caso, Carrie Lam fece la sua parte: dato che il Chief Executive Leung era ormai divenuto figura impresentabile e divisiva, fu lei a incontrare i rappresentanti degli studenti in lotta, in un tentativo fallito di mediazione e ricomposizione. Ci mise la faccia. Il movimento veniva in realtà da lontano. Non era solo figlio di una astratta rivendicazione di “liberaldemocrazia elettorale”; nasceva del deterioramento delle condizioni materiali di ampie fasce della popolazione hongkonghina. L’ex hub finanziario dell’Estremo Oriente, la porta della Cina che trae beneficio dal permettere ciò che è vietato sul continente – dall’oppio alle libertà democratiche, passando per il capitalismo – vive da tempo una decadenza dovuta proprio all’apertura della Cina, con il moltiplicarsi di centri economico-finanziari concorrenti: Shanghai, Shenzhen. In questa situazione, la lobby immobiliare-finanziaria alleata con Pechino continua a fare profitti, mentre la forbice della diseguaglianza si amplia e le nuove generazioni stentano a trovare lavoro degno e alloggi a prezzi accessibili. È in questo contesto che il movimento ha preso forma, ben prima del coagulante politico fornito dall’opposizione alla riforma elettorale.

Ora bisogna resettare tutto. Carrie Lam è secondo Pechino la migliore garanzia che la riforma politica venga per il momento messa nel congelatore e si pensi invece al welfare e a tutte quelle misure volte a ricreare consenso. Riuscirà a ricompattare la società hongkonghina?
Compito difficile. Il movimento degli ombrelli non sembra passato invano. Posto davanti alla domanda “non sarebbe stato meglio avere il suffragio universale anche con una limitata scelta tra i candidati?” Nathan Law, uno dei leader degli studenti, ha dichiarato al New York Times: “Nessun rimpianto. La proposta [di riforma voluta da Pechino] avrebbe dato alle elezioni una falsa legittimità e al Chief Executive un falso mandato”. Ma i dubbi sulla consistenza attuale del movimento sono più che fondati.

La Cina intanto ha aumentato le pressioni. Hong Kong è nella visione della leadership cinese forse più sensibile dello Xinjiang: là sono gli uiguri a ribellarsi, qui invece è la stessa popolazione han a dissentire e a non credere più alle promesse del modello “un Paese due sistemi”. A novembre, Pechino è intervenuta direttamente per bloccare l’insediamento di due membri della legislatura che avevano giurato fedeltà alla “nazione Hong Kong” e avevano assunto un atteggiamento ingiurioso verso la Cina durante la cerimonia di giuramento. A gennaio, Xiao Jianhua, un miliardario nato in Cina ma di nazionalità canadese è stato prelevato dalla sua stanza d’hotel a Hong Kong e portato in Cina anche se la polizia continentale non potrebbe ufficialmente operare nella Zona Amministrativa Speciale. Lo stesso era successo nel caso della scomparsa di cinque librai hongkonghini lo scorso anno.

Oggi, subito dopo l’elezione di Carrie Lam, ad alcuni protagonisti del movimento degli ombrelli è stato notificato un avviso di garanzia relativo ai fatti del 2014. Rischiano l’arresto. Molti se l’aspettavano, ma colpisce la tempistica: subito dopo l’elezione della signora Lam. Si pensa che si sia aspettato fino a oggi per non turbare il clima elettorale. Qualcun altro ritiene che invece ci sia dietro l’impopolare ma mai morto Leung Chun-ying, che vorrebbe subito mettere in imbarazzo la neo-eletta. I segnali ci sono tutti: Pechino mette sempre più l’accento su “un Paese”, mentre i “due sistemi” stanno passando in cavalleria. E anche i giochini nell’ombra sembrano quelli di Zhongnanhai.

di Gabriele Battaglia