Tecnologia

Let’s Play, con i ragazzi che creano videogiochi: ‘Per favore chiamateci nerd’

“Mi raccomando, facci pubblicità”. A dirlo, mentre sto per andarmene dal primo giorno di Let’s Play, il primo Festival del Videogioco a Roma, è un ragazzo di 28 anni. Ho parlato con lui a lungo: fa il grafico, sviluppa le immagini per i videogiochi e sta frequentando un’accademia che gli costerà, nei tre anni, circa 15mila euro. “Facci pubblicità – dice ancora  – ma non a me o ai miei colleghi: fa pubblicità a questo settore. Perché è bellissimo, con persone straordinarie e di ricco di creatività. Ma nessuno lo capisce”.

Sorrido. Non era proprio la conclusione di frase che mi aspettavo. Almeno non a un festival dove ci si immagina di trovare solo aziende che vogliono mostrare il loro prodotto o a far provare le ultime novità nel campo dei videogiochi. Sorrido perché ho trascorso una di quelle ore che ogni tanto mi  ricordano che c’è tutto un mondo di 20enni e 30enni che, dietro a una tenda e davanti a un computer – mentre fuori c’è un via vai di ragazzini che sparano, si sfidano  e urlano – trascorre le proprie giornate a programmare, sviluppare, studiare per realizzare qualcosa di bello e dannatamente complicato.

Ci sediamo in cerchio: “Come agli alcolisti anonimi”, scherzano. La maggior parte viene da Roma, due ragazzi da Lecce, uno da L’Aquila. Si sono iscritti tutti all’Accademia Italiana Videogiochi. Chiedergli come mai è una domanda stupida. “Passione per i videogames” mi rispondono in coro. Trent’anni, 27, 23, 19. Prima di decidere che questo era il loro mondo, hanno fatto tutt’altro. Psicologia, Storia, Architettura all’università. Ragioneria alle superiori.

“A un certo punto, ho capito che era questo quello da fare se volevo alzarmi felice la mattina”, spiega Fabio Nuzzo, 26 anni. “Lo stesso è successo a me – dice ridendo Kristian Cardiello – studiavo Lettere. Poi, ho messo la testa a posto”. Gianluigi Ferrandino studiava Storia. Poi a una fiera, ha cambiato idea. “E non ho sbagliato”, specifica ripensando a tutto il tempo trascorso per decidere.  Bruno Lucidi e Francesco Furfari invece si sono diplomati quest’estate e già a scuola sapevano che avrebbero fatto videogiochi.

E poi c’è lei,  Giada Moriconi, 28 anni. Quando la incontro sta realizzando un troll in 3d sul computer. “E’ scultura digitale – racconta in una lingua a me comprensibile – si usano gli stessi principi di quella fisica: bozze, poi dettagli, e poi approfondimenti. Serve per distinguere luci ed ombre:  dagli umanoidi ai mostri”. Lei ha studiato Architettura: “Sapevo che non volevo fare progettazione, volevo specializzarmi in modellazione 3d. E adoravo i videogiochi. Così eccomi qui”.

Ed eccoli lì, tutti. Mi spiegano che dietro ai prodotti che si vedono tra gli espositori (se andate, vi prego, provate le spettacolari novità in realtà virtuale con i visori) c’è un mondo fatto di passione e sacrificio: grafici, programmatori, sviluppatori che stanno seduti  notte e giorno per imparare e realizzare giochi all’avanguardia ed esteticamente attraenti.

Me lo conferma guardare un 24 enne che corre avanti e indietro tra gli stand di Nintendo e Milestone e le sale dove si tengono i workshop solo per chiedere al suo professore come modificare il colore dell’erba sullo sfondo, e poi come azzerare le gradazioni , e poi come stabilire un determinato parametro), mi dicono che quando li definiscono “nerd” sono contenti. “E’ solo un modo diverso per dire che siamo appassionati, che amiamo il nostro lavoro”.

E i loro parenti? “I nostri genitori ancora non hanno capito bene cosa facciamo: si fidano della nostra passione, ma non la capiranno mai fino in fondo. Ci vorrebbe un cambiamento culturale”. E nonostante il mercato del videogioco in Italia vada bene, il loro futuro lo vedono all’estero. “Giappone, Stati Uniti. Ma anche la Polonia. Crei un portfolio, cerchi contatti, lo proponi e speri che vada bene”. O insegui bandi europei mentre continui a sviluppare e creare, anche nel salotto di casa”. Sanno che da freelance o da assunti potranno fare questo lavoro solo fuori dall’Italia.

“Ma sarebbe bello, davvero bello, poter tornare qui un giorno: se si creeranno le condizioni, noi ci saremo“.