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Birmania, il bimbo Rohingya morto “come Alan” diventa simbolo del genocidio nel Paese di Aung San Suu Kyi

E' annegato nel fiume Naf mentre con la famiglia cercava di fuggire in Bangladesh per salvarsi dalla violenza dei militari. A raccontare la sua storia è stato il padre alla Cnn. La sua fine è simile a quella del piccolo siriano morto sulla spiaggia turca dopo un naufragio. Secondo l'Onu nel paese si sta compiendo una pulizia etnica che macchia l'immagine della giovane democrazia e la stessa leader, vincitrice del Nobel per la pace

Seminudo. Con la faccia immersa nel fango. Ha solo 16 mesi, ma è già morto. Come lo era Alan Kurdi, il bambino siriano annegato in un naufragio nel settembre del 2015 durante la traversata verso la Grecia, che le onde hanno riportato sulla spiaggia turca da cui era partito. L’immagine di Aylan commosse il mondo e divenne simbolo della tragedia dell’immigrazione. Qui invece siamo in Birmania e questa foto potrebbe diventare l’icona di una guerra sconosciuta. Il piccolo, infatti, era di etnia Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata dai militari birmani. Il governo, però, di cui Aung San Suu Kyi, politica nota per il suo impegno per i diritti umani e Nobel per la pace nel 1991, è Consigliere di Stato, ministro degli Esteri e ministro dell’Ufficio del Presidente, continua a negare il genocidio.

Il bambino, scrive la Cnn, si chiamava Mohammed Shohayet, è annegato insieme a mamma, fratellino di tre anni e zio mentre, sotto al fuoco dei militari, la sua famiglia tentava la traversata del fiume Naf, confine fra lo stato di Rakhine, in Birmania, e il Bangladesh, verso il quale stavano fuggendo. “Quando vedo questa foto, sento che vorrei morire. Non ha più senso per me vivere in questo mondo”, ha raccontato alla Cnn il giovane padre del bimbo, Zafor Alam, che racconta la sua storia: “Nel nostro villaggio gli elicotteri ci hanno sparato contro e poi i soldati birmani ci hanno sparato contro. Non potevamo restare nella nostra casa. Siamo dovuti scappare e nasconderci nella giungla. Ma mio nonno e mia nonna sono stati bruciati vivi. Il nostro villaggio è stato incendiato dai militari. Non è rimasto nulla”.

Quel massacro era solo l’inizio: “Ho camminato per sei giorni. Non ho potuto mangiare neanche riso per quattro giorni. Non ho potuto dormire per sei giorni. Dovevamo cambiare posto continuamente perché i soldati cercavano i Rohingya”. Poi il fiume: lui l’attraversa a nuoto per cercare aiuto, viene soccorso da un pescatore bengalese, insieme al quale va alla ricerca della sua famiglia. Chiama sul cellulare la moglie, e sente il piccolo che chiama il papà (Abba! Abba!). Dice alla moglie di aspettare, ma i militari birmani, nel frattempo, hanno iniziato a sparare sui fuggitivi. Il pescatore raccoglie più persone possibili. Troppe, e affonda. Alam non sa più nulla della famiglia, fino a quando qualcuno che lui conosce gli dice di aver visto e fotografato suo figlio: morto.

Secondo stime dell’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso il fiume Naf. Musulmani, di lingua affine al bengalese, sono circa un milione e vivono nello stato birmano occidentale di Rakhine. Le organizzazioni umanitarie denunciano la loro privazione di ogni diritto e la grande maggioranza dei birmani li considera immigrati provenienti dal Bangladesh illegalmente insediatisi in Birmania. In autunno è iniziata un’operazione militare che si configura come vera e propria pulizia etnica, secondo una recente ammissione dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Una macchia che pesa sulla giovanissima democrazia birmana, dove i militari sono sospettati di comandare ancora, anche se dietro le quinte. Una macchia che finisce per ledere anche l’immagine di Aung San Suu Kyi, capo ‘de facto’ del governo, che sulla vicenda è rimasta in silenzio.