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Dalai Lama a Milano, la protesta sorridente che la Cina teme

Il 20 ottobre sono andata al primo incontro del XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso al teatro Arcimboldi. In un teatro gremito di studenti dell’università Bicocca la città di Milano gli ha conferito la cittadinanza onoraria. La visita e gli insegnamenti del capo spirituale del buddhismo tibetano è stata accompagnata dalle proteste ufficiali dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, che in una nota diffusa dall’Ufficio Stampa ha dichiarato: “Il fatto che il Consiglio Comunale di Milano, le altre Istituzioni e persone siano presenti con connivenza alla visita del Dalai Lama a Milano e conferiscano a lui la Cittadinanza Onoraria, ha ferito gravemente i sentimenti del popolo cinese. Tutto ciò ha un impatto negativo sui rapporti bilaterali e sulle cooperazioni tra le regioni dei due Paesi. La Cina, con i suoi Rappresentanti Istituzionali, esprime forte rimostranza e ferma opposizione”.

Nel 1950 l’Esercito di liberazione popolare cinese ha invaso il territorio e, dopo una serie di rivolte e di repressioni, nel 1959 il Tibet è stato smembrato e le regioni centrali di U-Tsang sono andate a formare la Regione Autonoma Tibetana, creata ufficialmente nel 1965, mentre il Kham e l’Amdo sono diventate parte integrante delle province cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. Il Tibet quindi è diventato ufficialmente parte della Cina. Questo è l’antefatto.

All’arrivo all’aeroporto di Linate il Dalai Lama è stato accolto da Giuseppe Sala, sindaco di Milano, con cui ha avuto un breve colloquio, e da Tromdho Rinpoche, abate del monastero di Dharamsala, in India, sede del Dalai Lama e del governo tibetano in esilio. Un incontro low profile, quasi nascosto. La cittadinanza onoraria è stata conferita al Dalai lama da Lamberto Bertolé, presidente del Consiglio comunale e non Sala. Poco fuori del teatro l’annunciata rappresentanza della comunità cinese a Milano è stata di meno di 100 persone, non una nutrita protesta quindi, mentre il discorso di Tenzin Gyatso è stato incentrato sull’etica e sulla visione laica della religione buddhista.

Ma all’intervento di un ragazzo cinese che vive in Italia da 30 anni, che ha sottolineato come in Cina la religione buddhista sia seguita da milioni di persone – benché proibita, infatti, è il secondo credo del paese – il Dalai Lama ha risposto con una frase che ama ripetere: quali sono i miei diritti? Se andassi in Cina probabilmente sarei messo in prigione e il popolo tibetano subisce quello che in varie occasioni ha definito un genocidio culturale.

Che cosa può temere la Cina dall’81enne Dalai Lama che agli Arcimboldi ha ribadito che il Tibet non vuole staccarsi dalla Cina ma solo avere il diritto di preservare la sua identità, la sua religione e la sua lingua e che dal 2011 ha abdicato e lasciato il suo ruolo politico, rimanendo solo il capo spirituale dei buddhisti tibetani?

Il simbolo, che è l’arma più potente per risvegliare gli animi. La Repubblica popolare cinese teme questo, il simbolo. Sin dai suoi primi viaggi all’estero infatti Tenzin Gyatso, Nobel per la Pace 1989, è diventato un simbolo di protesta sorridente per tutte le popolazioni oppresse del mondo – e non solo per il suo popolo. Un’icona anzi, quasi al pari di Gandhi. E, cosa probabilmente ancora più temuta dal governo cinese, questo non solo dà voce e visibilità alla causa dell’ex Tibet, ma contribuisce al processo di democratizzazione della Cina.