Cervelli in fuga

Ingegnere a Harvard. “In Italia ricercatori molto capaci. Ma gli studenti hanno poca autostima”

Fausto Panizzolo, ingegnere biomedico di 34 anni, dopo alcuni anni in Australia è arrivato nella prestigiosa università di Boston. Lì ha progettato col suo team un esoscheletro che aiuta chi ha problemi di mobilità. "Stare all'estero amplia gli orizzonti. L'Italia mi manca e vorrei che il mio lavoro fosse utile al mio Paese"

Gli italiani all’estero si dividono in due categorie: quelli che sono scappati a gambe levate e quelli che sono andati alla ricerca dell’occasione migliore. Fausto Panizzolo, ingegnere biomedico di 34 anni, fa parte della seconda tipologia. “Mi è sempre piaciuto viaggiare, girare il mondo – racconta – così, dopo la laurea all’università di Padova, città in cui sono nato, ho colto l’opportunità più concreta che mi è arrivata e sono partito per il Canada”. Ma questo era solo il primo tassello da mettere nel suo personalissimo mappamondo: “Sono stato sei mesi lì per fare ricerca e poi sono tornato in Italia, ma ormai il virus del viaggio si era impadronito di me”, scherza. Al suo ritorno si è reso conto che nel nostro Paese non c’era la possibilità di coltivare progetti a lungo respiro: “Così ho mandato la mia candidatura per un progetto in Australia ed è andata bene”, ricorda.

Dopo aver trascorso alcuni anni lì, è arrivata un’offerta da Boston che non si poteva rifiutare: l’occasione di entrare a far parte di un team di ricercatori presso la Scuola di Ingegneria e Scienze Applicate dell’Università di Harvard. In due anni di lavoro lui e la sua squadra sono riusciti a mettere a punto un esoscheletro di tipo soft che si indossa come una tuta e che riduce il consumo energetico durante il cammino: “I suoi sensori capiscono i movimenti che facciamo, mentre i cavi attaccati ai pantaloni agiscono come muscoli – spiega -, in questo modo andiamo ad aiutare le persone che hanno problemi di mobilità, come gli anziani e i malati di Parkinson, o coloro che camminano a lungo portando grossi pesi sulle spalle”.

“Qui a Boston se serve un macchinario arriva il giorno dopo, mentre in Italia tra burocrazia e permessi servono cinque mesi per averlo”

Dopo due anni di vita a Boston, Fausto può iniziare a tirare le somme: “Qui tutto funziona in maniera efficiente, se serve un macchinario arriva il giorno dopo, mentre in Italia devi richiedere vari preventivi, passare per le risorse umane e alla fine ti ci vogliono cinque mesi per averlo, e in un’ottica di raggiungimento del risultato questi sono limiti importanti”. Ma guai a parlargli male del nostro Paese: “La ricerca in Italia è tutt’altro che morta, ci sono molte persone capaci, il problema è che mancano i fondi e questo ci rende meno competitivi”, ammette. Lui, però, non rinuncia al sogno di poter tornare: “Il problema è che, essendo stato via per diversi anni, in Italia a livello professionale mi conoscono in pochi, mentre il sistema internazionale, essendo più aperto, mi offre più opportunità”, sottolinea. Mai dire mai, però: “Sono sempre stato bene all’estero, ma il nostro stile di vita mi manca parecchio – ammette -, e poi mi piacerebbe che il mio lavoro fosse utile al mio Paese”.

Fausto non coltiva alcun rimpianto per le sue scelte, anzi, consiglia vivamente a tutti di fare almeno un’esperienza all’estero. “Serve per allargare i propri orizzonti e per arricchirsi, poi ovviamente si può decidere se tornare indietro o se restare fuori – spiega -, ma non è così facile come dicono. Anche all’estero non è tutto oro quello che luccica”. E qui spezza un’altra lancia in favore dell’Italia: “Laurearsi nel nostro Paese è un grande punto di partenza, ti dà delle ottime basi – sottolinea -, il problema è che gli studenti italiani non si sentono mai abbastanza bravi, mancano di autostima”. All’estero la situazione è capovolta: “In questi anni ho conosciuto molti ragazzi di 18 o 19 anni che già credono in quello che fanno – conclude -, mentre in Italia ci buttiamo giù e pensiamo sempre che quello che viene fatto fuori dai nostri confini abbia più valore”.