Ambiente & Veleni

Isola d’Elba, quarta estate con le macerie dell’ecomostro della cricca. La licenza? E’ rimasta all’impresa dei corruttori

Le sentenze per lo scandalo di Elbopoli (che sfiorò anche Matteoli) hanno condannato da tempo un prefetto, un giudice, due costruttori. Quello che doveva essere un centro servizi è stato sequestrato e demolito. Ma dal 2013 i detriti restano lì. Il sindaco: "Dobbiamo aspettare la nuova progettazione per l'area". Già riqualificata dopo 30 anni di urbanizzazioni. In una terra che soffre il cemento e le alluvioni

Dopo la corruzione e l’abuso restano sempre le macerie. All’Elba non è nemmeno una metafora: l’ecomostro di Procchio – una delle 70 spiagge dell’isola – è stato tirato giù e fatto a brandelli, ma i detriti sono ancora lì. I turisti non rimarranno delusi: troveranno anche questa estate, la quarta di fila, i calcinacci di quello sgorbio vista mare. Sentenze e condanne sono ammuffite, eppure le macerie di Elbopoli – il più grande scandalo giudiziario della costa della Toscana – restano lì. Le ruspe hanno buttato giù colonne portanti, muri maestri e anche responsabilità: tocca all’azienda che l’aveva costruito togliere quell’ammasso di pietre, eppure in tre anni nessuno è andato a battere alla spalla del titolare. Il sindaco di centrodestra di Marciana Marina, Anna Bulgaresi, eletta per la prima volta nel 2009, ci vuole provare ora con un’ordinanza, dopo aver visto che l’iter burocratico normale potrebbe far diventare quelle macerie reperti archeologici. “Gli operai della ditta dovrebbero iniziare intanto a pulire l’area, mentre per vedere i camion portare via le macerie si dovrà aspettare settembre, con la fine della stagione turistica”. Ma per ora non c’è nemmeno l’ordinanza.

Lo sgorbio di Procchio, costruito nel 2003 a poche centinaia di metri dal mare, è un graffio in faccia a un’isola che si difende da decine di anni dall’arrembaggio dei pirati del cemento: quei detriti sono un monumento ai caduti e non è solo questione di paesaggio e spiagge da “liberare”. L’ecomostro è infatti un simbolo già dalle fondamenta, costruite in mezzo al corso originario del fosso Vallegrande. Ci sono quattro, cinque, sei canali che si ingrossano ogni volta che piove forte sull’isola e il Vallegrande è tra questi. Proprio quel fosso fu tra i responsabili dell’alluvione del 2011. Ma d’altra parte quell’emergenza (che causò un morto e milioni di euro di danni diretti e indiretti) fu la seconda in dieci anni, perché già nel 2002 l’isola andò sott’acqua. I lavori di messa in sicurezza, disse Legambiente dopo l’ennesima esondazione, non sono fatti per allontanare il rischio, ma per continuare a costruire dove il rischio già si è manifestato. Per anni gli 8 Comuni che governano i 223 chilometri quadrati hanno avuto piani strutturali singoli che – dicono gli ambientalisti – hanno permesso varianti, variantine, finte messe in sicurezza che hanno consentito cemento e infrastrutture e quindi consumo del suolo e terreni impermeabili.

Le macerie di Procchio dovevano essere un grande centro servizi: 7500 metri cubi, appartamenti, negozi, un parcheggio sotterraneo. Troppo grande. La Forestale lo segnalò, la Procura chiese il sequestro perché niente tornava con la licenza edilizia. Ma il giudice del tribunale non dette l’ok ai sigilli. Fu l’inizio dello scandalo Elbopoli che travolgerà – come se fosse un’esondazione del Vallegrande – due prefetti, un giudice, un sindaco, imprenditori, un funzionario comunale. La cricca prima del tempo delle cricche. Una bufera che sposterà i capelli anche a un ministro ora senatore, Altero Matteoli, lasciandolo però immacolato.

E’ l’estate del 2003 quando la guardia di finanza di Livorno ascolta le telefonate tra i proprietari e il progettista del centro servizi. Ma trovano un interlocutore in più: è proprio il giudice che ha negato il sequestro. Si chiama Germano Lamberti, è il capo dell’ufficio gip, ha presieduto il tribunale che ha emesso la prima sentenza sulla tragedia del Moby Prince, viene descritto come un uomo tutto d’un pezzo. Ma secondo i giudici ha un prezzo: poche ore prima Lamberti aveva ricevuto la richiesta del pm Antonio Giaconi di sequestrate tutto e ora suggerisce all’ingegnere progettista cosa serve per mettersi in regola. In cambio – dicono le sentenze definitive – avrebbe avuto un appartamento nel centro di Procchio e un altro a Cavo, altro angolo di serenità dell’isola. E allora risponde al pm che il sequestro va respinto. Il collega giudice che firmerà l’ordinanza del suo arresto scriverà: “Lamberti nel suo provvedimento ha affermato principi giuridici, fatti e circostanze, pur nella consapevolezza e convinzione che essi fossero del tutto errati e non corrispondenti alla reale situazione giuridica”.

Il tempo di liberare il progettista – pochi mesi – che già lo riarrestano. Insieme a lui anche il prefetto di Isernia, Giuseppe Pesce, appena promosso dopo aver fatto il vice a Livorno e soprattutto il commissario prefettizio a Rio Marina, paese dall’altra parte dell’Elba, dal 2000 al 2001. Secondo i pm il viceprefetto Pesce ha concesso una concessione edilizia e una variazione di destinazione d’uso per far costruire un residence in un’altra zona spettacolare dell’isola, la ex Costa dei Barbari, a Cavo. In cambio, anche in questo caso, appartamenti a prezzo agevolato. Nella commissione edilizia chi c’era? Il progettista dell’ecomostro di Procchio. Nominato da chi? Dal prefetto Pesce. Infine il prefetto Vincenzo Gallitto. Subito dopo essere uscito assolto dal processo per la tragedia dell’alluvione di Soverato, riceve un altro avviso di garanzia, questa volta per corruzione, questa volta a Livorno. Lo accusano di aver fatto da intermediario tra i palazzinari e il giudice Lamberti. A lui, disse agli immobiliaristi, non dategli un appartamento sulla strada, piuttosto “sul dietro, dalla parte del giardino”. In un’altra telefonata Lamberti rassicurava Gallitto sull’eventuale presenza di inchieste per abusi edilizi: ho controllato, spiegava il giudice, “non c’era niente”. Non c’era niente perché tra gli indagati c’era anche lui e quindi l’inchiesta era già stata trasferita – come da prassi – da Livorno a Genova.

Dell’inchiesta – secondo la Procura – Gallitto seppe da qualcun altro, cioè dall’allora ministro dell’Ambiente Altero Matteoli. L’ex colonnello di An si è sempre difeso dicendo che in realtà aveva telefonato al prefetto per l’emergenza incendi e aveva chiesto a Gallitto se era vero quello che dicevano i giornalisti, cioè che c’era un’indagine. Ma nessun tribunale lo ha mai verificato perché il processo è morto in un attorcigliamento di conflitti di attribuzione, tra tribunale ordinario, tribunale dei ministri, voti della Camera, pronunce della Consulta. Il processo agli altri invece – tra varie partite di andata e ritorno – è finito nel 2013 quando la Cassazione ha confermato le condanne per gli imprenditori pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi a 3 anni e mezzo, il giudice Lamberti a 4 anni e 9 mesi e il prefetto Gallitto a 3 anni e 4 mesi. Tutti accusati di corruzione. Lo è anche il prefetto Pesce, ma il suo reato è caduto in prescrizione, così come quelli di altri imputati (in tutto a processo erano in 8).

Tutto finito, tutto risolto, dopo dieci anni? Macché. Nel giugno 2012 Regione e Comune annunciano che la struttura abusiva sarà demolita dopo 3 mesi e invece di mesi ne passano 9. Firenze ci mette oltre 5 milioni di euro per ricostruire tre chilometri di corso d’acqua, cancellati dalle urbanizzazioni degli ultimi trent’anni (ecomostro compreso). Da quel momento inizia il labirinto burocratico nel quale la responsabilità pare sempre di qualcun altro. “Lo spostamento delle macerie – spiega il sindaco Bulgaresi – era vincolato da parte della Provincia all’approvazione di un piano attuativo presentato dalla ditta con i dettagli della ricostruzione. Con le vicende giudiziarie, però, quella era tornata ad essere un’area ‘bianca’, e prima era necessaria una nuova pianificazione. Il futuro si deciderà con l’approvazione del nuovo piano urbanistico“. Perché però l’attesa si è trascinata per anni? “Ce lo chiediamo anche noi – risponde Simone Barbi, consigliere del Pd, all’opposizione – Assistiamo a uno scaricabarile tra Provincia e Comune”. La Bulgaresi sostiene di aver “aspettato perché sembrava che la proprietà avrebbe fatto qualcosa. E invece è passato un altro anno e non hanno fatto nulla. Adesso interverrò ordinando in maniera formale alla proprietà di rimuovere le macerie, poi si vedrà come procedere”.

L’ordinanza, annunciata dal sindaco per il 13 giugno, non c’è ancora e ilfatto.it non è più riuscito a trovare il sindaco per capire perché. “Ci hanno comunicato che è stato avviato il procedimento per l’ordinanza. L’iter prevede di avvisare prima la ditta”, fa sapere Barbi dall’opposizione. L’accelerazione del Comune – dopo tre anni – per il sindaco dovrebbe essere “una mossa per dare un segnale preciso: non possiamo ritrovarci la prossima estate con le macerie”.

Perché il motivo principale delle lungaggini è il completamento della progettazione che dovrà ridisegnare tutta l’area. Il piano è in consiglio comunale, si attendono le osservazioni dell’impresa, che non è soddisfatta perché il Comune ha rivisto le cubature al ribasso, spostando dei volumi dagli appartamenti ai servizi. L’impresa che ha la concessione è rimasta la stessa di 13 anni fa. Nonostante l’ecomostro, lo scandalo, le condanne e la demolizione, la legge lo permette.