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Holly e Benji, i 30 anni del cartoon calcistico più amato

Pare fosse il 19 luglio 1986 quando, dopo un “la la la la la la laaa, la la la la la la la laaaaaa…”, Paolo Picutti cantasse una sigla – con le musiche di Augusto Martelli e il testo di Alessandra Valeri Manera – che sintetizzava, sin dalle prime strofe, il succo di un anime che avrebbe influenzato la vita (e i pomeriggi) di milioni di ragazzini italiani.

“Due sportivi, due ragazzi, per il calcio, sono pazzi”, gli ingredienti vincenti c’erano già tutti perché Holly e Benji sfondasse in Italia dove, in questi giorni, ricorre il trentennale dalla prima messa in onda. Oliver Hutton e Benjamin Price sono i nomi che l’adattamento occidentale ci ha consegnato. Non so se li avremmo amati ugualmente con i loro nomi originali, ossia, Ozora Tsubasa e Wakabayashi Genzo. Comunque sia, questi due, sempre citando la sigla, “son portiere e attaccante, Holly e Benji, due speranze”.

I ruoli calcistici più in vista per i personaggi principali di una serie che prima t’incollava davanti allo schermo e poi ti portava a uscire in strada, su campi e campetti vari a giocare per tentare il tiro della tigre di Mark Landers, i vari tiri a effetto di Holly o le parate miracolose di Benji. Suppongo ci sia stato anche chi abbia provato il doppio tiro o la catapulta infernale facendosi del male ma la forza di quel cartone animato era proprio quella.

L’immaginario dei bambini è sempre stato quello di ingigantire il gioco con la fantasia e, in Holly e Benji, tutto era incredibilmente gigante: a partire dal campo che non finiva mai e sorgeva su una collina. La potenza di tiro di alcuni giocatori era spaventosa, solo Roberto Carlos non avrebbe sfigurato con loro, alcuni giocatori poi, nonostante fossero poco più che dei bimbi erano degli armadi.

Loro erano una sfilza di ragazzini che l’autore aveva creato e caratterizzato così bene che a ognuno potrebbe dedicarsi una storia: c’era chi amava il goffo Bruce Harper, il sensibile giramondo col padre artista di strada, Tom Becker, il turbolento Mark Landers, il talentuoso Julian Ross, ostacolato dai problemi cardiaci. Non finiremmo più di ricordare, raccontare e, con trent’anni in più sul groppone, prendere in giro le esagerazioni di Holly e Benji.Anzi, succede sempre questo quando in un gruppo di amici ultratrentenni (anche quarantenni), qualcuno tira fuori Holly e Benji: si ricordano i nomi, le partite che non finivano mai e gli episodi extracalcistici e alla fine, inesorabile, ti assale la nostalgia.

Personalmente avevo poco meno di 7 anni alla comparsa della serie e fui subito un fan, di quelli che preferiva emulare Holly usando il Super Tele (totalmente imprevedibile nelle traiettorie) e non il Tango (più pesante) che il Mondiale 1982 aveva messo in circolazione. Tornando alla nostalgia, la vera molla che scatta quando si ricordavano gli episodi, in tutto 128, è questa: eravamo consapevoli che assistessimo a un gioco impossibile, una finzione assoluta, non credibile neppure agli occhi dei bambini ma ne avevamo bisogno e assecondavamo ogni eccesso perché era la realizzazione delle fantasie che tutti noi cullavamo segretamente.

Chi non avrebbe voluto segnare dalla porta opposta o tirare così forte da piegare le mani al portiere? Se lo avessi detto in giro saresti stato definito un folle, dopo Holly e Benji, era possibile immaginare di più, perché tutto era stato già gonfiato, esasperato e portato al massimo. Sembrerebbe il calcio di oggi, quasi. Gonfiato ed esasperato e senza la possibilità di immaginare un miglioramento. Un cambio in positivo, a oggi, non può esserci perché il mondo del calcio (e non solo) è retto da uomini non sempre specchiati e che secondo me, non hanno mai visto nemmeno una puntata di Holly e Benji.