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Turchia, non finisce qui

Erdogan ha parato il colpo, ma “non è ancora sera”. Almeno nel senso preciso che questa crisi è molto più ampia di quanto faccia pensare il fulmineo disastro dei golpisti. I generali hanno fallito clamorosamente, sottovalutando, prima di tutto, la reazione popolare a loro avversa. Ma quello che è accaduto è, con ogni evidenza, l’inizio di una reazione a catena. Solo all’ultimo anello sarà possibile chiudere la resa dei conti.

Gli Stati Uniti, quelli ufficiali, sembrano colti di sorpresa. Ma è impossibile anche solo pensare che a Washington fossero all’oscuro di tutto. Comunque si capisce l’imbarazzo: un colpo di Stato militare in un paese della Nato, che ospita un centinaio di bombe atomiche, che ha il secondo esercito dell’Alleanza, è un colpo anche al prestigio del comandante in capo dell’Alleanza, cioè degli Stati Uniti.

Adesso ad Ankara e Istanbul regna di nuovo Erdogan, appoggiato da moltitudini islamiche che sono arrivate subito in suo soccorso. Ma il resto del paese è in subbuglio. In 17 province è in corso la guerra civile, contro i curdi. E’ apparso evidente che le opposizioni a Erdogan non hanno appoggiato il golpe dei militari. E il bombardamento del Parlamento è forse stato l’errore più grave commesso dai generali. Ma le opposizioni restano, anche dopo il golpe fallito. E solo un altro golpe, questa volta di Erdogan, potrebbe metterle a tacere.

E c’è un asfissiante isolamento internazionale di Erdogan. I guai commessi in Siria e l’appoggio a Daesh (con armi, istruttori, frontiere aperte ai jihadisti) sono venuti ormai allo scoperto; la gestione della crisi dei profughi ha aperto un vulnus grave anche con l’Europa; la rottura con la Russia dopo l’abbattimento del Sukhoi in territorio siriano, tutto questo ha contribuito a formare un’opinione internazionale ostile nei confronti di un leader che è apparso poco affidabile. Le stesse parole usate da Washington e dalla Merkel, dopo il golpe, sono state troppo formali per non essere notate come tali.

Il golpe, anche se vinto, non ha rafforzato la sua immagine. Erdogan sembra oggi più debole di prima. E’ un vincitore azzoppato.

Le precipitose e clamorose scuse pubbliche a Putin, il frettoloso ripristino delle relazioni diplomatiche con Israele (interrotte dopo lo scontro nel Mediterraneo della Mavi Marmara, in cui nove cittadini turchi furono uccisi dai servizi speciali israeliani), appaiono ora, a golpe terminato, come mosse affrettate di un leader privo di agganci sicuri. A Washington gli amici neocon che lo aiutarono a salire al potere sembrano avere cambiato idea. E il Dipartimento di Stato, insieme a Obama, non è certo entusiasta di questa Turchia, alleato “non allineato”.

Insomma Erdogan ha moltiplicato i nemici senza avere ottenuto vittorie decisive. E la guerra di Siria, al fianco di Daesh e dell’Arabia Saudita, è stata perduta. Doveva servire anche per imbrigliare le diverse fazioni curde, ma nemmeno in questo senso ha prodotto risultati.

Chi fossero i golpisti è ancora da vedere. Che il loro burattinaio sia stato il suo ex amico Fatullah Gulen, il predicatore che dirige la potente organizzazione Hikmet, e che vive negli Stati Uniti, ha tutta l’aria di un capro espiatorio di copertura. Se si volesse capirne di più basterebbe andare a rileggersi l’articolo che Michael Rubin pubblicò sul sito dell’American Enterprise Institute (Asi) lo scorso 31 marzo. Fin dal titolo, assai esplicito: “Ci può essere un colpo di Stato in Turchia?”.

L’Asi è il caposaldo principale dei neocon americani, della squadra di Bush Junior, quella che produsse il Pnac (Project for the New American Century) e, secondo le nuove ricostruzioni, patrocinò l’11 settembre. Michael Rubin è uno dei più influenti ispiratori attuali dell’Asi. Significativo che quell’articolo fosse un invito esplicito ai militari “kemalisti”. Se vi muoverete, era scritto a chiare lettere, non avrete nulla da temere né dagli Usa, né dall’Europa.

Ma l’articolo di Rubin era stato addirittura preceduto, il 10 marzo di quest’anno, da un altro articolo, questa volta sul Washington Post, a firma di due ex ambasciatori americani in Turchia (Eric Edelman e Mort Abramowits) che, rivolto direttamente a Erdogan, formulava un’alternativa secca: “You must reform or resign” (o fai le riforme o dimettiti).

Due campane a martello in meno d’un mese, solo quattro mesi fa. Probabilmente è in quella direzione che bisogna guardare se si vuole capire qualche cosa.

Resta il problema per tutta la Nato (inclusa l’Italia), che non può nascondere di avere un alleato decisivo sul quale, evidentemente, non è più sicura di poter contare. E l’Europa è nelle stesse acque, largamente dipendente da un partner infido e insicuro.

Si apre ora una fase convulsa e caotica, in cui Brexit, Nizza e il golpe turco definiscono, insieme, l’alto grado di incertezza in cui versa l’Occidente. Ora è chiaro che la crisi è qui e non — come il mainstream ha cercato di dipingercela — nei rapporti con la Russia di Putin. E si vede sempre di più.