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Brexit, governo Cameron spaccato: ma la frattura non è solo sull’idea di Europa

Due fronti contrapposti in seno alla maggioranza: quello dei conservatori tradizionalisti e i modernizzatori. Il primo fronte non ha mai perdonato al premier i matrimoni gay, il suo europeismo, il suo essere poco attento alla Chiesa anglicana e le critiche al candidato repubblicano americano, Donald Trump. Amatissimo dai "veri" Tory. Se vince il sì al referendum del 23 giugno, l'ex sindaco di Londra Johnson potrebbe diventare il nuovo primo ministro

Mentre tutto il mondo ha gli occhi puntati sul referendum sulla Brexit, l’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione europea dopo il referendum del prossimo 23 giugno, a Londra e dintorni si sa bene che in ballo con il voto nelle urne non c’è soltanto un’idea di Europa, ma anche un’idea di che cosa sia il governo di sua maestà e soprattutto di quale sia la reale essenza del partito conservatore che guida l’esecutivo senza aver bisogno di alcuna alleanza o di alcuna coalizione. La spaccatura sulla Brexit fra i ministri del premier David Cameron – è risaputo a Londra e viene sottolineato in questi giorni dalla grande stampa britannica – è infatti sintomatica di una più profonda frattura in seno alla maggioranza: i due fronti sono quello dei conservatori veramente tradizionalisti e quello di chi vorrebbe un partito più aperto, i modernizzatori. E il primo fronte non ha mai perdonato a Cameron il suo aver voluto e ottenuto i matrimoni gay, il suo europeismo degli ultimi mesi, il suo essere poco attento alla Chiesa anglicana e finanche il fatto che più di una volta abbia risposto per le rime al quasi candidato repubblicano americano, Donald Trump. Amatissimo dai “veri” Tory.

Cameron, e forse questo concetto non è ben noto all’opinione pubblica e alle cancellerie europee, è considerato troppo al centro, troppo moderato. Così, esattamente come Tony Blair veniva definito, pur essendo laburista, “un Tory rosso“, allo stesso modo e sempre più spesso Cameron viene definito “un laburista blu“. Insomma, il campo di appartenenza è quella terra di mezzo nella politica che, in un Regno Unito sempre più polarizzato sui temi dell’immigrazione e dell’economia, quindi dell’appartenenza al mercato comune europeo con la sua libertà di movimento e di residenza, viene sempre più vista con sospetto. La cronaca, del resto, lo conferma. Durante la campagna referendaria, lo stesso ministro della Giustizia, Michael Gove, assolutamente euroscettico e pro-Brexit, ha fatto intendere più volte che il governo rischia di implodere dopo il voto. Dalla parte di Gove, assolutamente a favore del divorzio da Bruxelles è anche Priti Patel, sottosegretaria al Lavoro, e chiaramente lo è anche il vulcanico e carismatico Boris Johnson, sindaco di Londra fino allo scorso 5 maggio e ora candidato non ufficiale a prendere le redini del partito conservatore dopo un’eventuale estromissione di Cameron. La stampa britannica più volte ha scritto di “una sorta di golpe post-referendum”. Questo è quello che a Londra si teme. E le paure sono molto fondate.

Poco importa che Gove, in passato, sia stato uno dei ministri dell’Istruzione più odiati dal corpo degli insegnanti e degli studenti, gli scioperi ripetuti lo hanno dimostrato. E poco importa anche che Johnson sia definito da molti “un Donald Trump ma un po’ più politicamente corretto”. Con l’eventuale Brexit, e con quello che verrebbe dopo, a Londra potrebbe così prendere potere un governo Gove-Johnson. Il che darebbe finalmente il partito in mano al fronte più tradizionalista, quello che da sempre ha provato fastidio per l’estensione dei diritti civili, per le istituzioni di Bruxelles, per gli oltre 300mila migranti in più ogni anno (il dato è quello netto) che arrivano a popolare le terre britanniche e a fare lavori che spesso i sudditi di sua maestà non vogliono fare, e in generale per una politica considerata troppo lontana dagli interessi della “gente”. Così, chi è appassionato di fantapolitica in questi giorni ha provato a tracciare che cosa succederebbe in caso di Brexit, un’eventualità che ora anche la stampa di sinistra ed europeista ritiene molto probabile. Innanzi tutto, si avrebbe uno scossone a Downing Street, con una crisi di governo che porterebbe Cameron a dimettersi. Il che, per le norme britanniche, non significherebbe necessariamente l’andare a elezioni. Poi, ancora, la presa del potere da parte dei conservatori più tradizionalisti, appunto, che avrebbero il compito di traghettare il Regno Unito dall’Unione europea al suo essere un’entità spuria, ai confini del continente ma comunque a esso legata. E qui è forse uno degli aspetti più interessanti di tutta la vicenda: la grande maggioranza dei parlamentari di Westminster al momento è assolutamente europeista e anti-Brexit.

Ecco quindi che qualcuno alla Camera dei Comuni ha già prospettato, prima delle eventuali dimissioni di Cameron, un qualche voto parlamentare che, nonostante il divorzio da Bruxelles, mantenga il paese nel mercato unico europeo: un pastrocchio di notevoli dimensioni, che in un certo modo annullerebbe il voto popolare, dando tuttavia fiato alle trombe di Johnson, Gove e di tutti gli euroscettici, che sarebbero sempre più arrabbiati. E lo stallo e le discussioni sul rapporto fra Regno Unito e Unione europea andrebbero avanti per anni: drenando risorse, attenzione ed energia non solo a Londra ma anche in tutte le capitali del continente. E le rogne non finirebbero di certo con il voto del 23 giugno.