Politica

Quando Pannella mi disse: ‘La morte mi arrapa, mi rapisce, mi fa sognare’

Lo trovai più curvo, ma il solito fil di ferro. Anche un po’ più sordo, “strilla che non sento”, con la coda di cavallo, una vertiginosa cravatta giallognola, e la voglia matta di un tiramisù. Mi condusse in un bistrot a parlare della morte attesa: “La morte mi arrapa, mi rapisce, mi fa sognare”. Della sua fame ciclopica: “Ogni giorno devo mangiare almeno 250 grammi di pasta, la dieta ottimale è però di mezzo chilo: 350 grammi a pranzo e il resto per colazione al mattino seguente”. E dell’autofagia: “Le cellule ripuliscono il corpo, affamato o assetato, cacciano via quelle ossidate e rinvigoriscono le sane. I nutrizionisti non capiscono un cazzo: la mia longevità è dovuta a quel che ho dato al mio corpo ma soprattutto a quel che ho tolto”. Nel giorno della sua scomparsa voglio farvi leggere la mia intervista pubblicata sul Fatto Quotidiano nel marzo 2015.

“La fame non mi ha mai lasciato, il digiuno conserva”

Marco Pannella è l’unico leader a far parlare il corpo in sua vece. Obbliga cioè il corpo malgrado una lingua torrenziale a monumentali battaglie politiche. E così rinsecchisce o ingrassa, si espande (a volte si moltiplica) o si riduce. Lo fa vivere o lo asseta nello stile singolare che lo ha condotto per mezzo secolo a guidare da padre-padrone il Partito radicale. Un partito che poi non è esattamente un partito.

(Al caffè Sharì Varì, tre del pomeriggio)

L’idea di morire a volte mi arrapa. Mi rapisce, mi fa sognare. Perché il presente ha due forme: c’è quello dei morti e l’altro dei viventi. Sapere che le mie idee, i miei amori, la mia vita, i miei vizi saranno vivi dopo di me mi consegna a un benessere spirituale, a una condizione di entusiasmo. Ciascuno è corpo e storia e noi siamo seme che cresce. Al liceo nella mia classe eravamo in quarantatré. E in tutta la scuola l’unico Marco ero io. Negli anni ho visto fiorire un gran numero di Marchi. Un po’ di merito secondo te, ce l’ho? Ci sono amici cattolicissimi, che dunque credono nell’aldilà, nella vita oltre la vita, e mi raccomandano sempre: Marco, riguardati. E infatti credo di aver avuto un singolare riguardo per il mio corpo, per tutto quello che gli ho dato e soprattutto per quel che gli ho tolto. I nutrizionisti sono delle teste di cazzo, io credo nell’autofagia. La mia longevità (ho 85 anni e come vedi mi reggo ancora in piedi) è data anche dal digiuno e proprio grazie all’autofagia: le cellule ripuliscono il corpo, assetato o affamato, sacrificano quelle ossidate dallo stress o dagli anni e danno propulsione invece alle altre, capaci ancora di vita sana.

Non ricordo più quanti scioperi della fame e della sete ho fatto. Ma pochi sanno che ho sempre avuto una fame ciclopica, oltre la misura. Ti dico solo che già a cinque anni impazzivo letteralmente per le salsicce fresche di maiale che, tenendo all’oscuro mamma, mi facevo spalmare su fette di pane fatto in casa, fette tagliate in modo che fossero pesanti come la roccia del Gran Sasso. Ricordo che mia zia, compagna di vacanze della mia famiglia a Giulianova, mi spalmava la salsiccia di carne fresca sul pane abbrustolito. Che bontà! Mamma che era francese provava scandalo e timore di infezioni: la carne fresca! Di maiale poi! Io non mi fermavo mai, e facevo ripetute visite alla ghiacciaia (allora non c’era il frigorifero). Prelevavo formaggi stagionati, pezzi di pecorino. Avevo una scaltrezza unica, dissimulavo benissimo. Nessuno in casa pensava che potesse essere il bimbetto a fregarsi il pecorino piccante. I sospetti cadevano sempre sull’incolpevole Annuzza, la domestica. All’età di militare mi pesarono: 65 miserabili chiogrammi su un metro e novanuno di altezza. La fame non mi ha mai lasciato, e ogni giorno devo gioiosamente provvedere a cucinare almeno 250 grammi di pasta (De Cecco se sono in Italia, a Parigi trovo la Buitoni).

Faccio il sugo io, ai pomodori freschi aggiungo alcuni vegetali (cipolla, carota e qualcos’altro). La dieta ottimale era però di mezzo chilo. 350 grammi appena cucinati e il resto per colazione al mattino seguente, ripassati in padella. Non c’è di meglio al mondo. Quindi fare sciopero della fame, per uno che mangia tanto, potrebbe sembrare un sacrificio disumano. E qui, nei giorni del digiuno, mi aiuta l’autofagia. Io progressivamente perdo i sapori, le labbra si screpolano, la lingua non avverte, si appisola, si ritrae, si consuma nell’inedia. In quei giorni mi miro allo specchio. Noto che purtroppo perdo la massa muscolare, non quel poco di grasso che pure c’è. Ma so che nel mio corpo le cellule lavorano a mio vantaggio, mi aiutano a sopportare il digiuno. Sono fatto così, magari per altri non vale. Ah, riferiamo che oggi io mi faccio sessanta sigari al giorno. A 24 anni andavo avanti con 80/100 sigarette Celtic. Le Gauloises e le Gitane erano troppo leggere per me.

Ora sai che facciamo? Ordiniamo un tiramisù. Oggi smetto lo sciopero (giustizia giusta, amnistia ai detenuti, ndr), lo smetto qui con te. Devi scattarmi una foto. Voglio sempre che il momento sia certificato, in qualche modo validato. Scattato? Fammi vedere. Si vede bene la bocca? E il cucchiaino? E la crema? Il mio corpo, ah questo corpo. Nel linguaggio radicale si dice dar voce, dar mano, dar corpo. E anche l’atto sessuale è una forma di comunione, di convivio. Ho detto, e ora ripeto a te, che probabilmente ho due figli naturali. Te lo dice uno che negli anni giovanili della Fuci faceva maggioranza con i congregati mariani, mi trovavo meglio con loro che con i comunisti. Dico che probabilmente ho due figli perché le donne con le quali è accaduto (di un concepimento sono certo, del secondo ho qualche dubbio, ma non ho approfondito mai) erano sposate e hanno ritenuto di conservare il loro legame e di farne partecipi i rispettivi compagni della gravidanza e della volontà di portarla a termine.

Perché mi dici che ho confessato questi segreti quasi con distrazione, con superficialità? Non è assolutamente vero. Sapevo, ero cosciente di dire una cosa grave, impegnativa, importante per me. Non dimenticare che la donna della mia vita è Mirella. Ero in Abruzzo e ricordando quegli anni, erano gli anni dell’Università a Napoli, ho riferito di aver conosciuto una ragazza più giovane di me con un cognome francese. Fu un amore tenerissimo… È stata una parentesi, come altre ce ne sono state. E mi è sembrato un gesto di rispetto e di responsabilità tenere presente quella sua scelta. Non ho voluto invadere l’altrui vita. Quel bimbo o quei bimbi avevano genitori e amore.

Come amore e responsabilità ci fu quando con la mia compagna decidemmo invece di non dare corso alla gravidanza, scegliemmo l’aborto e io fui con lei. Lo praticammo insieme, l’aiutai materialmente. Fummo coscienti e certi della nostra azione. E ci sembrò giusto di non dare vita.

Non dimenticare una terza cosa fondamentale: con il corpo si dà voce e volto alle battaglie e dunque necessariamente anche all’amore. Victor Segalene scriveva: A colui che perviene sin qui malgrado la svolta e i passi falsi. Al compagno che ti dona i suoi occhi, cosa a mia volta devo donare in cambio di questo sguardo? Si parla di paternità, di maternità. L’uomo e la donna. Ma poi c’è la fraternità. E c’è l’uomo con l’uomo. La mia bisessualità non è stata una scelta ma un destino, in spagnolo si dice destinazione. È stata lo sviluppo di un percorso, il frutto di un rapporto che si condensa in amore dialogico. Quante me ne hanno dette nel tentativo di darmi del “frocio internazionale”. Ma il partito è comunità, comunione e quindi convivio. Cum vivere. E io ho convissuto, dando parola e ricevendo parola, dando amore e ricevendo amore.

Non voglio avere la presunzione di essere esempio di qualcosa. Sono quel che vedi. Ma non ho mai smesso di credere nella ricerca filosofica dell’amicizia, nell’amore inteso nella sua forma dialogica e anche nella pienezza della fisicità. Ho combattuto, ho dato e ho amato. Teneramente, intensamente.