Società

Rebibbia, sul pianeta carcere sbarcano i politicanti ma nessuno si accorge di loro

Rebibbia, presentazione d’un libro. Eccolo, il politicante. Parla per primo, ovviamente. Voce alta, parole ben scandite, pause appropriate, eloquio dotto. È perfetto, anche nei gesti tutto è studiato: con una mano tiene con classe il microfono alla distanza giusta per modulare la voce, con l’altra gesticola accompagnando sapientemente i concetti. Persino i contenuti sono, in qualche passo, condivisibili. Con un occhio alla platea e uno alle autorità, sa come citare il principio costituzionale del fine rieducativo della pena, condito di parole come libertà, diritti, garanzie, anche se c’entrano poco o nulla con il libro. A proposito, dà addirittura l’impressione di averne letto qualche stralcio qua e là, ma che importa? Vira subito sui massimi sistemi e poi, appena al di là dei tempi previsti, “mi avvio a concludere…”, “e qui concludo veramente”, l’ultima frase è introdotta da una pausa che crea l’enfasi e subito scatta il doveroso applauso, a suggellare un compito davvero ben fatto.

Quando passa il microfono al relatore successivo, assume l’atteggiamento di chi è davvero interessato e desideroso di ascoltare. Ma dura pochissimo, la noia sopravviene e alla prima pausa utile si alza quasi di soppiatto, va rispettosamente a stringere la mano agli altri da dietro la cattedra, scusandosi per l’impegno improrogabile che lo attende impietoso. E se ne va, prevedibilmente con le ali ai piedi, soddisfatto di aver fatto bene ma ancor più felice di tornare “libero”, fuori le mura. Il fatto è che, a parte uno attaccato a una certa idea di politica come me, nessuno si è accorto di lui: né che c’è stato, né che se n’è andato, non ha lasciato nulla dietro di sé. L’impressione, forte, è che avrebbe saputo parlare con la stessa pomposità, solennità e anche un po’ di prosopopea, trovando le parole e gli argomenti giusti, anche se fosse stato di fronte a un’ipotetica assemblea di boia e aguzzini legalmente riconosciuti.

Il suo modo di vestire, di quell’eleganza molto chic, stride in carcere come una minigonna con calze a rete per una donna. Ci vuole misura, in certi contesti. Trattandosi di uomo, crea distanza. Dopo di lui, tra gli altri, prende la parola un giovane detenuto in tuta da ginnastica. Tutto rosso in viso: “M’hanno detto da legge er libbro e io… nooo e perché io? Ma poi m’ha preso, piano piano l’ho capito e poi… quando le paggine che rimanevano erano sempre de meno… ”qui la voce s’abbassa quasi rotta dal pianto “volevo che nun finisse mai”. Parte un applauso scrosciante, di sentito sostegno alla debolezza espressa dal ragazzo emozionatissimo.

Ecco quel che manca alla politica odierna: l’anima. O meglio, manca a coloro che comunque vorrebbero riproporre certi presunti fasti della politica, superstiti delle scuole tipo Frattocchie, e che invece sono sopraffatti dal “nuovo che avanza”, da chi viene dal nulla, non sa nulla, non ha alcun progetto ma sa benissimo come propiziarsi i voti per la conquista del potere fine a se stesso. È questa politica – divisa tra chi saprebbe farla ma non ha i contenuti e la passione, finendo per rinchiudersi in un atteggiamento altezzoso ed elitario, del tutto autoreferenziale, e chi non sa mettere due parole di seguito ma sa come farsi capire al popolino – che crea l’antipolitica. Tutto il resto, quell’indifferenza alla dipartita prematura del politicante, è astensionismo.