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Usa, stop al segreto di Stato sul dossier dell’11/9. L’attesa per le “prove” contro l’Arabia Saudita

Ventotto pagine del rapporto della Commissione del Congresso sulle stragi del 2001, rimaste finora ignote, potrebbero presto essere rese pubbliche. E chiarire finalmente se Riyad abbia avuto un ruolo negli attentati

Che cosa c’è dentro il rapporto secretato dal Congresso sull’11 settembre? Le prove, o almeno forti indizi, sul coinvolgimento di un Paese straniero negli attacchi terroristici. Questa è sempre stata la versione più accreditata negli ambienti della politica di Washington. E poiché Bob Graham, il senatore democratico che fu co-chairman del comitato che produsse il rapporto, ha più volte accusato l’Arabia Saudita di legami con i terroristi, la conclusione è stata naturale: a Riyad c’era il cuore operativo che ha deciso e gestito gli attacchi. Ora però il fiume di congetture, ipotesi, allusioni di questi anni potrebbe esaurirsi. L’amministrazione Obama starebbe per rendere pubbliche quelle 28 pagine.

E’ stato lo stesso senatore Graham, oggi in pensione, ad annunciare che l’intelligence americana deciderà nelle prossime settimane se, e come, le pagine secretate verranno diffuse. “La domanda più importante sull’11 settembre, rimasta senza risposta, è se i diciannove terroristi misero in piedi quel complotto così sofisticato da soli, o furono aiutati”, ha detto Graham a NBC. Nei giorni scorsi era filtrata la notizia che il presidente Barack Obama aveva chiesto al direttore della National Intelligence, James Clapper, di considerare la declassificazione dei documenti. L’ipotesi più probabile è che una parte soltanto delle 28 pagine vengano messe a disposizione del pubblico.

Fu George W. Bush a ordinare il segreto di stato su parte delle 838 pagine che la 9/11 Commission produsse nel 2002. La ragione ufficiale fu che le 28 pagine avrebbero rivelato fonti e metodi dei servizi americani. In realtà, sin da allora, negli ambienti politici e diplomatici americani girò la voce che il segreto servisse a tutelare le relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Quindici dei diciannove dirottatori dell’11 settembre erano del resto cittadini sauditi. E sebbene l’Arabia Saudita abbia sempre proclamato di aver combattuto gli estremisti, di aver tagliato le loro fonti di finanziamento e di “essere stata ingiustamente e in modo morboso accusata di complicità”, le voci su un suo coinvolgimento non sono mai cessate.

Non è stato del resto il solo senatore Graham ad alimentarle. Tim Roemer, un deputato dell’Indiana che partecipò alla commissione, ha spiegato che le 28 pagine possono essere considerate una sorta di “rapporto di polizia preliminare”, aggiungendo che nel documento riservato si trovano “chiavi e prove di quanto successe”. “Non abbiamo scoperto… un coinvolgimento del governo saudita ai suoi più alti livelli negli attacchi dell’11 settembre. Ma quello che abbiamo scoperto non esonera di certo i sauditi. L’Arabia Saudita è stato un terreno fertile per la raccolta di finanziamenti per al-Qaeda”.

In discussione è soprattutto il ruolo di Fahad al Thumairy, un funzionario del consolato saudita di Los Angeles che avrebbe aiutato due dei dirottatori a stabilirsi nel sud della California al loro arrivo negli Stati Uniti. Al Thurmairy non poté rientrare negli Stati Uniti nel maggio 2003, dopo che il Dipartimento di Stato parlò di un suo “possibile coinvolgimento” negli attacchi terroristici. I sospetti hanno colpito anche Omar al-Bayoumi, altro saudita in California – forse un agente del governo di Riyad – che aiutò i due futuri dirottatori al loro arrivo a San Diego. L’avvocato americano di al-Bayyoumi ha sempre spiegato che il suo assistito “frequentava una scuola a Londra, al tempo degli attacchi, e che non c’è alcun fondamento reale per le accuse”. Il principe Bandar bin Sultan, che era l’ambasciatore saudita a Washington nel settembre 2001, ha sempre negato ogni coinvolgimento del suo Paese: “L’idea che il governo saudita abbia finanziato, organizzato o anche solo saputo degli attacchi dell’11 settembre è maligna e clamorosamente falsa”.

Sinora la segretezza è stata protetta con grande cura. Il rapporto completo, senza gli omissis, può essere consultato soltanto da deputati e senatori, dopo il via libera dei comitati di intelligence di Camera e Senato. Una volta autorizzato, il politico è scortato da agenti in una stanza insonorizzata nei sotterranei del Congresso. Il rapporto si trova in cassaforte e il deputato e senatore può leggerlo soltanto sotto gli occhi di un agente, senza poter prendere alcun appunto. Thomas Massie, un deputato che ha letto le 28 pagine, le ha definite “scioccanti”: “Ho dovuto fermarmi ad ogni pagina per riflettere e rivedere la mia comprensione di quello che è successo negli ultimi 13 anni”, ha detto.

Massie, insieme ad altri due deputati, Walter Jones e Stephen Lynch, si è unito in questi anni ai circa 9000 familiari delle vittime dell’11 settembre per chiedere la declassificazione delle pagine ancora segrete. L’obiettivo, a questo punto, sembra più vicino. Anche se a molti osservatori a Washington non sfugge un aspetto. La possibile declassificazione arriva infatti al termine della presidenza di Barack Obama, con un presidente più libero quindi di gestire le proprie relazioni internazionali; e arriva, soprattutto, nel momento più basso nei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, con Riyad furibonda per il corso degli eventi in Siria e soprattutto per il recente riavvicinamento di Washington all’Iran. Con l’intero sistema delle relazioni diplomatiche ed economiche in Medio Oriente in rapida trasformazione, e il venir meno dell’Arabia Saudita come partner privilegiato, la pubblicazione delle pagine sui legami tra Riyad e il terrorismo potrebbe non essere più un tabù per gli Stati Uniti.