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Giulio Regeni, “la faida tra Servizi segreti lo ha stritolato”. Parla l’unico del direttivo Fratelli musulmani ancora libero

Amr Darrag racconta cosa c'è dietro la morte del ricercatore italiano. E parla delle rivelazioni della fonte anonima delle scorse settimane: "Lui fa più volte riferimento a delle telefonate, telefonate tra agenti egiziani, ma anche di italiani che vogliono notizie di Regeni. E delle tre forze di sicurezza, solo una per legge ha accesso alle intercettazioni: è la General Intelligence. A cui dunque è molto probabile che appartenga l'anonimo. E a cui appartiene ora anche Al-Sisi"

Penso che l’anonimo, sì, sia credibile. Penso sia andata più o meno come racconta, perché quei dettagli sulle torture, sul corpo di Giulio Regeni, che cita, tipo le bruciature di sigaretta sul collo, non erano stati resi noti. Ma soprattutto, l’anonimo non è poi così anonimo. A leggere attentamente le sue parole, a leggere tra le righe, è abbastanza chiaro chi sia. E questo spiega molto”. Amr Darrag sa bene di cosa parla. E non solo perché in Egitto, fino a tre anni fa, era tra gli uomini al potere, presidente dell’Assemblea costituente e poi ministro, e conosce il Paese dall’interno, ma perché conosce dall’interno anche i suoi apparati di sicurezza: parla da Istanbul, in cui vive in esilio. Oggi guida Giustizia e Libertà, il partito dei Fratelli Musulmani. Del suo direttivo, è il solo ancora libero. Gli altri sono stati tutti condannati a morte.

L’anonimo dice che Giulio Regeni era finito nel mirino della National Security. Che è stato fermato, interrogato e torturato, e poi, a fronte del suo silenzio, trasferito alla Military Intelligence. E qui ancora torturato. Fino alla morte.
In realtà, dice molto di più. Fa più volte riferimento a delle telefonate, telefonate tra agenti egiziani, ma anche di italiani che vogliono notizie di Regeni. E delle tre forze di sicurezza, solo una per legge ha accesso alle intercettazioni: è la General Intelligence. A cui dunque è molto probabile che appartenga l’anonimo. E a cui appartiene ora anche Mahmoud Al-Sisi. Piazzato lì dal padre nel tentativo di controllarla.

La General Intelligence è quella che è stata a lungo guidata da Omar Suleiman?
Esatto, dal numero due di Mubarak. Dall’uomo che più di tutti si aspettava che diventasse diventare presidente. Per questo hanno sostenuto la rivoluzione: non perché volessero la democrazia, ma perché altrimenti il successore di Mubarak, ormai era chiaro, sarebbe stato suo figlio Gamal. Volevano più potere, non meno. Tutto l’Egitto di oggi può essere letto così.

Così come?
Come uno scontro per il potere tra le tre forze di sicurezza. La General Intelligence, che è l’intelligence civile, è la più importante, ed è anche la più decisa contro Al-Sisi: che era il capo della Military Intelligence. La terza, la National Security, ha invece ruoli più operativi. Un po’ come l’Fbi. E sono divise su tutto. Ora, per esempio, sono ai ferri corti su Hamas. La General Intelligence ha invitato una delegazione di Hamas con tutti gli onori di una delegazione di Stato: ma secondo la National Security, Hamas ha ucciso il procuratore del Cairo, che si occupava dei processi ai Fratelli Musulmani.

Per l’Egitto, dunque, cos’è Hamas? Un partito palestinese o un gruppo terroristico?
Le nostre forze di sicurezza sono solo in teoria al servizio dello stesso Stato. E infatti, provi a leggere la stampa di regime. Sul caso Regeni, i quotidiani espressione della General Intelligence sono tutti all’attacco di Al-Sisi. Dicono che ha demolito la reputazione dell’Egitto. Per gli altri, il caso Regeni a stento esiste. La General Intelligence, è evidente, sta speculando sull’omicidio.

Non potrebbe essere piuttosto tutta un’operazione della General Intelligence? Perché le due forze di sicurezza più vicine ad Al-Sisi avrebbero ucciso uno straniero, cosa che avrebbe ovviamente causato una crisi internazionale?
Ma Giulio Regeni non è stato ucciso nonostante fosse uno straniero: è stato ucciso proprio perché era uno straniero. Perché era uno straniero e studiava i sindacati. In Egitto, come in tutto il Medio Oriente, le teorie complottiste sono realmente diffuse. So che per voi europei è difficile da immaginare, ma qui tutto è ricondotto a una cospirazione straniera. Inclusa la rivoluzione: che ancora oggi è vista come una cospirazione americana. E da chi è iniziata la rivoluzione? Non certo da Facebook.

È iniziata dai sindacati.
Dagli operai del Delta del Nilo. I sindacati sono l’unica forza veramente temuta dal regime. Sono capaci di mobilitare l’intero Egitto, e in più, a differenza di noi islamisti, non possono essere tacciati di terrorismo. Sì, secondo me hanno davvero fermato Regeni per capire chi fosse e con chi era in contatto.

Non l’hanno solo fermato. L’hanno ucciso.
Era già capitato. Avevano già ucciso un francese, nel 2013, un professore, Eric Lang. E comunque non credo che la morte di Regeni sia stata voluta. Nel senso: l’obiettivo era strappargli informazioni, non assassinarlo. E ora la General Intelligence approfitta del disastro. A lei sembrerà strano perché ragiona come un’europea. Questi non vengono da un’accademia. Non sono come i vostri carabinieri. Ma ha visto gli investigatori arrivati a Roma? Senza carte, senza niente? Dicono che rientrano in hotel a prepararle, e dopo dieci minuti escono per un giro di shopping. Stiamo parlando di Al-Sisi: uno che ha detto che l’esercito ha scoperto la cura per l’Aids.

Ma se l’hanno ucciso senza volerlo, non potevano fare sparire il cadavere? Nessuno avrebbe mai saputo più niente di Giulio Regeni.
Probabilmente erano convinti di farlo sparire così. Scaricandolo in un fosso. Le ipotesi sono due. Che la General Intelligence abbia pianificato tutto per scalzare Al-Sisi, che è in un momento difficile, con la sua incompetenza riconosciuta da tutti i suoi finanziatori del Golfo, che ormai gli affiancano un consulente dopo l’altro. Gli Emirati gli hanno assunto Tony Blair. Oppure, seconda ipotesi, che la General Intelligence sia venuta a conoscenza dell’omicidio e abbia deciso di sfruttarlo. E penso sia la cosa più probabile. Non a caso, quelle informazioni non vi sono state vendute a caro prezzo. L’anonimo vi ha detto tutto su Facebook.

E perché allora non consegnare queste famose intercettazioni?
Perché altrimenti il caso si chiude. E il loro obiettivo non è certo la verità per Giulio Regeni: il loro obiettivo è avere strumenti di pressione nella scontro interno. Con questo tipo di regimi, onestamente, è una storia che si ripete: pensate di usarli e non capite che invece vi usano.

Ma perché allora non è Al-Sisi a chiudere il caso, consegnando all’Italia un colpevole. Perché non accontentarci arrestando uno degli esecutori, uno qualsiasi? Un pesce piccolo. E archiviando il caso.
Perché una volta estradato in Italia, quello tirerebbe tutti dentro. E poi, posso dirlo? Sono degli incapaci, ma su una cosa non si sbagliavano: pensavano che l’Italia, in nome degli interessi comuni con l’Egitto, non avrebbe insistito troppo per avere la verità. E in effetti, se non fosse stato per la madre di Giulio Regeni, per quelle sue parole così forti, così lucide, non saremmo qui a parlarne. L’avreste al più considerato come un incidente, un singolo episodio. Una questione giudiziaria invece che politica. Avreste indagato sul chi, sul come. Non sul perché. E Al-Sisi sarebbe rimasto quel great leader di cui il vostro primo ministro, in un’intervista ad al-Jazeera, si è detto orgoglioso di essere amico.

In effetti, l’Italia ha richiamato a Roma il suo ambasciatore dopo due mesi. Perché ha esitato così tanto? Cosa difende Renzi, quando difende Al-Sisi?
Il problema non è solo l’Italia, in realtà. Giulio Regeni studiava a Cambridge, la vostra generazione è una generazione di cittadini europei: eppure la Gran Bretagna non ha detto una parola. Probabilmente perché British Petroleum ha firmato con Al-Sisi un contratto in base a cui l’Egitto riceve il petrolio di cui ha bisogno, ma tutti i profitti finiscono a Londra. Tutti. Il 100 per cento. E la Francia? In mezzo a tutto questo, Hollande è andato al Cairo a vendere armi. Degli aerei di cui cercava di sbarazzarsi da anni. Dei catorci.

L’Eni ha da poco scoperto uno sterminato giacimento di gas al largo di Alessandria. Il più vasto del Mediterraneo. Stiamo difendendo il gas?
Gli affari giocano sempre il loro ruolo. E soprattutto nel caso dell’Egitto: perché abbiamo parlato delle forze di sicurezza, ma oltre a loro, e anzi, sopra di loro, c’è l’esercito. Che non è l’esercito a cui siete abituati voi. I generali sono arrivati al potere con Nasser, e ancora oggi, ufficialmente, controllano circa il 40 percento dell’economia. Più le tutte le società e le imprese guidate da militari fuori servizio. I trasporti, le infrastrutture, le comunicazioni, l’edilizia… Tutto è gestito dall’esercito. L’Egitto è dell’esercito. Letteralmente: la terra non abitata è di sua proprietà, un po’ come in Inghilterra è di proprietà della regina. Ogni volta che si fanno affari con l’Egitto, in realtà si fanno affari con l’esercito. Non si investe in un Paese, ma in un regime.

E quindi c’è una questione Eni?
No, direi che è un accordo normale. Squilibrato, come tutti gli accordi con le multinazionali. Ma direi che nel caso dell’Italia, la ragione di fondo per cui difende Al-Sisi è politica. E si chiama Libia. Il paese che è la vostra priorità. La nostra frontiera con la Libia è completamente aperta al passaggio di armi e miliziani. E il nostro esercito sostiene il generale Haftar, l’uomo che sta cercando di minare il piano di pace delle Nazioni Unite. Sostenete Al-Sisi perché avete bisogno che Al-Sisi non sostenga Haftar.

E il mare, tra l’altro, è aperto al passaggio dei migranti. All’improvviso, sono ricominciate le partenze dall’Egitto: solo una coincidenza?
Diciamo che chi pattuglia le nostre coste può decidere di girarsi dall’altra parte, e non vedere. Ma il problema è un altro. Mubarak, bene o male, controllava lo Stato. Al-Sisi no. Il problema è questo. L’Egitto di al-Sisi non solo è un paese alla fame, ma è un paese in cui provi a campare vendendo tè per strada, e un poliziotto ti spara perché sostiene che il tè costa troppo. Muori così, in Egitto: per un tè da 10 centesimi. Il problema non è fermare chi emigra, ma fermare le ragioni per cui si emigra.

1. continua

Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 22 aprile 2016