Mondo

Turchia, governo contro “Accademici per la pace”: su 2.212 firmatari 669 sotto indagine. “Molti docenti costretti a lasciare”

Si intensifica la stretta delle autorità sul gruppo di docenti universitari che hanno firmato la petizione uscita l'11 gennaio 2016, intitolata “Non saremo parte di questo crimine!”, in cui si chiede al governo di fermare gli attacchi contro i curdi nel sud del Paese e gli arresti dei dissidenti politici: il governo la considera propaganda pro terroristi. A testimonianza del clima che si respira negli atenei, nell'università Boğaziçi, il 26 febbraio è stata trovata un'auto con una bomba disinnescata al suo interno

“Cosa farò in futuro? Non ne ho idea in questo momento. È difficile anche solo andare all’estero. Ma la mia posizione non è nemmeno lontanamente la più in pericolo. Alcuni colleghi sono stati costretti per precauzione a lasciare l’ateneo dove insegnavano. E ancora non si sentono sicuri”. La Turchia non è un Paese per accademici. B., una ricercatrice che non può rivelare il suo nome per paura di ripercussioni, vive in costante contatto con la sua legale: teme che da un giorno all’altro anche lei possa finire in carcere. L’accusa “possibile” è aver firmato la petizione uscita l’11 gennaio 2016, intitolata “Non saremo parte di questo crimine!”, in cui si chiede al governo di fermare gli attacchi contro i curdi e gli arresti dei dissidenti politici. Il governo turco la considera propaganda pro terroristi. Il gruppo che l’ha proposta, il quale ha avuto grande risonanza internazionale, si chiama Accademici per la pace. Non tutti sono attivisti pro Kurdistan. Anzi, molti sono critici con loro: il movimento al suo interno contiene diverse posizioni, accomunate solo dalla ricerca di pace. Ma non sembra interessare al governo.

Gli ultimi a finire dietro le sbarre sono stati il 15 marzo Esra Mungan (psicologa all’università Boğaziçi), Muzaffer Kaya (scienziato politico dell’università Nişantaşı) e Kıvanç Ersoy (matematico dell’università Mimar Sinan). Il 18 marzo in sostegno di Mungan è stata organizzata dai membri della sua facoltà una manifestazione per chiederne la liberazione. Un quarto, l’informatico dell’università Bilgi Chris Stephenson, britannico che da 25 anni vive ad Istanbul, è stato solo fermato e portato nel centro di detenzione di Kumkapi, poi è stato costretto a lasciare il Paese. Tra due mesi sarebbe andato in pensione.

L’offensiva contro il gruppo Accademici per la pace è imponente: su 2.212 firmatari (a gennaio, quando la petizione è uscita erano 1.128), in 669 sono sotto indagine. “Come può un governo arrestare oltre 2mila persone – si chiede B. – ma abbiamo paura che possa toccare ad uno qualunque di noi”. Lo scrivono anche gli Accademici per la pace in una nota interna che informava gli aderenti della sorta dei loro tre colleghi: “Non sarebbe strano se tutti venissimo colpiti allo stesso modo”. Le prove sono evidenti: professori a contratto dall’oggi al domani hanno perso il posto.

D’altronde il presidente Recep Tayyip Erdogan li ha accomunati ai terroristi: “Non c’è differenza tra un terrorista che imbraccia un’arma e coloro che usano i loro titoli e lo loro penne per sostenerli. Queste persone che sono state arrestate dalle forze di sicurezza per il sostegno che danno alle organizzazioni dei terroristi non possono entrare in una corte di giustizia da una porta ed uscire da un’altra”. Non tutto il mondo accademico è con gli Accademici per la pace. C’è chi ha creato un gruppo opposto, gli Accademici per la Turchia: la sostengono 2.071 professori, soprattutto teologi. Il gruppo sostiene gli interventi militari del governo turco nell’est del Paese.

Nell’ordine di cattura che riguarda gli ultimi quattro professori, si fa un sillogismo che i firmatari considerano folle. Siccome il 22 dicembre 2015 il dirigente curdo del Partito comunista dei lavoratori (illegale in Turchia) Bese Hozat ha detto che “gli intellettuali e i poteri democratici dovrebbero sostenere le loro regole” e 20 giorni dopo gli Accademici per la pace sono usciti con la loro petizione, allora “le due dichiarazioni sono parallele”, come ha scritto il procuratore che ha in mano l’indagine. Ragione sufficiente per considerare i quattro alla stregua di aderenti al Pkk.

Chi sono le persone più in pericolo? È questa la domanda che circola tra i firmatari della petizione di Accademici per la pace. Laureata in Economia politica, B. ha un profilo certamente a rischio. Ha studiato le forme di autogoverno che si sono sviluppate in Turchia, i movimenti di protesta (ultimo Gezi Park, di cui lei ha fatto parte fin dalla prima ora). Ha una forte rete di contatti in Kurdistan, dove si muove spesso. Paradossalmente, il suo vantaggio rispetto ad altri colleghi è l’essere precaria: “Non sappiamo se sono le università a segnalare gli accademici contro il governo – racconta – io non insegno stabilmente in una sola università”.

A testimonianza del clima che si respira negli atenei turchi, nell’università Boğaziçi, dove la ricercatrice ha studiato, il 26 febbraio è stata trovata un’automobile abbandonata con una bomba al suo interno, ma priva di miccia per innescare l’esplosione. È stato il momento di tensione maggiore dall’inizio dell’escalation contro gli universitari, il 12 gennaio, giorno della bomba a Sultanahmet costata a vita a 10 turisti tedeschi. È da allora che tutto è cominciato. “Ciò che mi rende più triste è che se domani organizzassimo una manifestazione in piazza scenderebbero in pochissimi”, aggiunge B.

In fondo il circolo di persone che si oppone è sempre lo stesso. Anche gli avvocati che si prendono l’onere di portare in un aula giudiziaria questi casi sono facilmente rintracciabili. I legali sono spesso vittime di retate: il 16 marzo, 47 persone sono finite in arresto con l’accusa di essere vicine al Pkk. Molti di loro sono avvocati. Arif Ali Cangi è il loro difensore in aula. Negli anni è stato uno dei principali difensori dei movimenti ambientalisti, vicino ad universitari e ambienti della sinistra che si oppone ad Erdogan. Conosce diversi accademici: “Ormai non c’è più opposizione nemmeno nei piccoli comuni – racconta – la si fa solo nelle aule giudiziarie, ma i giudici subiscono una pressione indiretta talmente forte che si autocensurano”. “Spero che la prossima volta non dobbiate venirmi a trovare in carcere”, dice accennando un sorriso, prima di andarsene.