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Usa 2016: l’eredità di Obama in quattro domande

Barack Obama è in piedi di fronte al Congresso (Camera, Senato, comandi militari e giudici supremi del suo Paese) per presentare il suo ultimo discorso sullo “Stato dell’Unione”, e noti subito, dal tono un po’ basso della voce, dalla figura fisica (gesti minimi, niente enfasi) che Obama scarta il percorso delle emozioni e cerca quello della ragione. Può sembrare freddo.

Ma, come in tutta la sua presidenza, vuole essere capito, non coinvolto nelle emozioni di entusiasmo o di diffidenza degli altri. Sa che razzismo, pregiudizio, la visione prevalente della potenza come valore e del progresso come ricchezza (più ricco: più bravo e più avanti nella Storia) sono contro di lui. Lui vede, invece, senza agitare bandierine, l’uomo e la donna che lavorano, e i loro figli, come i protagonisti della Storia, come gli attori del grande spettacolo di vita quotidiana, il solo che gli interessa. Sa benissimo che le voci della campagna elettorale che si avvicina sono molto alte e contano sullo shock e lo scandalo, anticipate da giornali e televisioni che, finalmente libere dalla implacabile dignità del presidente uscente, possono fare codazzo al grande rientro della volgarità nella vita giornalistica e in quella politica, ciascuno mostrando meraviglia per la scompostezza degli altri.

Un giornale “popolare-conservatore” di New York (il New York Post) ha dedicato, due giorni fa, l’intera prima pagina al titolo: “Drop dead Cruz”, letteralmente: “Cruz va a morire ammazzato”. La colpa di Cruz, candidato di destra alle primarie di destra del partito repubblicano, ormai di estrema destra, è avere detto di New York che è “un covo di liberals” ovvero di gente di sinistra. E persino Trump, da newyorkese, si è offeso. Sono gli stessi giorni in cui le affermazioni “morire di fame” e “morire di freddo” non sono più figure retoriche ma fatti cronaca, come accade nella città siriana di Madaya assediata da Assad e dai ribelli contro Assad, dove i tardivi soccorritori dell’Onu hanno visto la gente morire davanti ai loro occhi mentre iniziavano le prime distribuzioni di cibo.

È ciò che continua ad accadere ogni giorno, ogni notte ai rifugiati e ai loro bambini, mentre tutta l’Europa chiude le porte ed elimina Schengen, unico simbolo di unità, oltre all’euro. I nuovi contendenti del potere americano sembrano ben poco preoccupati della epidemia di morte per violenza e abbandono di adulti indifesi e bambini nel mondo. Barack Obama però non si è mosso dalla collocazione che si è scelto nella storia: certificare gli eventi non per scuotere l’emozione, ma rimettere in funzione la ragione.

Nel suo ultimo discorso “sullo Stato dell’Unione”, in cui un presidente americano rende conto di ciò che è accaduto, e mostra che cosa ha accantonato per il futuro dei suoi cittadini, questo presidente si è concentrato su quattro domande. Traduco la prima così: come si assicura uguaglianza (“opportunità e sicurezza”) nella nuova economia? La domanda ci riporta ai tempi di Roosevelt e scardina la credenza del successo dei ricchi come successo di tutti. La seconda. Come fare in modo che la tecnologia, invece che contro di noi, lavori per noi? Si riferisce sia alla tecnologia come rete di scorciatoie contro il lavoro e per il profitto, sia alla tecnologia come distruzione conveniente per alcuni, letale per tutti, dell’ambiente e della natura. La vastità umana, politica, ma anche di riorganizzazione del che fare, appare chiara e appare visionaria, benché detta con una insistenza da insegnante, senza l’aria di avere scoperto dove sbagliano gli altri.

Terzo: come si fa a tenere l’America al sicuro e in un ruolo di guida, senza diventare (di nuovo) il poliziotto del mondo? La domanda spiega perché non arrivano nelle aree tormentate del mondo C130 carichi di soldati che sembrano usciti da guerre stellari, protagonisti di un nuovo tipo di imposizione della forza, in cui è più facile distruggere che prevalere. Il quarto punto è la testimonianza di otto anni di presidenza diversa degli Stati Uniti: “Come si fa a essere protagonisti di una politica capace di esprimere il meglio che è in noi, invece del peggio”, come è accaduto, e continua ad accadere?

Forse la cosa più nuova e importante è il consegnare consapevolmente ai cittadini un lavoro incompiuto. Obama sa e vede che la politica, nel suo Paese come nel mondo, è il gioco di pochi signori del potere che si contendono tutto, ma non il futuro sicuro e protetto dei cittadini, non la ricerca di nuove strade contro l’epidemia di distruzione e di morte. Nel discorso sullo Stato dell’Unione di Obama si vede, in controluce, il vuoto che il suo distacco lascia nella politica americana e nella politica del mondo. Accusatelo pure di “buone intenzioni” piuttosto che di grandi opere. Al momento quel che sappiamo è che il tempo delle buone intenzioni finisce qui.

Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2016