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Isis, non ho niente da cui dissociarmi

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Pare strano dirlo, ma non mi dissocio dall’Isis perché non mi sono mai associato a loro. Neanche le persone di fede musulmana che abitano nel nostro Paese, l’Italia, dovrebbero dichiarare costantemente, più volte al giorno, anche in fila alle casse del supermercato, di doversi dissociare dall’Isis. La colpa di pochi non può essere quella di tutti. Non possiamo girare per strada con un cartello con la scritta “sono musulmano e mi dissocio dall’Isis. E a dire il vero, chi paga il prezzo più alto, come scrivevo dopo la strage di Charlie Hebdo, rimangono i musulmani. Sono loro a morire in Iraq e Siria, uccisi da dittature spietate e da un fondamentalismo nato dal decennale potere esercitato da questi regimi sulle società. Sono queste vittimi a non venir riconosciute, altrimenti ci saremmo uniti alle grida di dolore che arrivano da quella terra che abbiamo chiamato “culla della civiltà”. E’ l’Islam, come scrivo costantemente in questi giorni, a essere deturpato nella sua bellezza. Sono i fedeli di questa religione a subire lo sguardo dell’altro. Dovreste provare a camminare nelle città e sentire il peso dello stereotipo su di voi; a vivere con il dito puntato per colpe che non sono vostre. Solo riconoscendo il dolore dell’altro, insieme alla sua storia, possiamo costruire un dialogo.

Non è una gara a chi paga il più alto numero di vite, nè il tentativo di vittimizzare i musulmani. Non credo nel vittimismo ma sono profondamente convinto della necessità di contestualizzazione di quello che accade. Chiedere, esigere, ai musulmani di provare un senso di colpa collettivo vuol dire criminalizzare un intero gruppo religioso in nome dell’azione di pochi. Questo è, parallelamente, quello che fanno i fondamentalisti: discriminare e giudicare in nome di un comun denominatore che nel loro caso è la fede. “Tutti quelli differenti da noi sono degli infedeli” dicono e noi, noi che possediamo il tanto amato secolarismo, oggi chiediamo a una comunità di fedeli di scendere in piazza per dimostraci che fra di loro non si annida qualche terrorista. Cerchiamo certezze per guarire dalla sindrome, che i media hanno contribuito a creare, di assedio. In molti hanno cominciano perfino ad aver paura del musulmano (scompare ai nostri occhi la nazionalità, in favore di una identità esclusivamente religiosa) che consegna le pizze a casa perché potrebbe essere un terrorista, salvo scoprire, magari, che è copto.

Quando abbiamo ottenuto che i musulmani in Italia si sentano in colpa e scendano a manifestare c’è chi dice “non è abbastanza!”. Ma come, hanno manifestato! Hanno condannato! “Erano troppo pochi” dicono. Forse dovevamo convocare oltre un miliardo di persone (l’intera popolazione planetaria di fede musulmana) a Milano e Roma per dimostrare la nostra buona fede? La verità è che nulla ci calmerà da questa sindrome dell’Isis fino a che non comprenderemo che la più grossa battaglia è quella che dobbiamo ancora combattere in noi stessi. Dobbiamo abbatere il muro che ci divide in “noi” e “voi”. Dobbiamo piantarla di essere esposti alle discutibili opinioni di critici d’arte, valletti e vallette dei programmi serali e opinionisti vari che improvvisamente diventano esperti di Islam e mondo arabo: la tuttologia è il grosso male dei nostri tempi, è l’assenza dell’umiltà di aprire un libro e dire “voglio imparare”.

D’altra parte, ci siamo sempre preoccupati del nostro orto. Andava bene quando l’Isis, nato dalle ceneri del Ba’th iracheno in funzione anti sciita e dal vuoto causato dalla repressione di Assad, uccideva solo siriani o iracheni. Solo con la decapitazione di giornalisti occidentali abbiamo cominciato a preoccuparci, per noi stessi. Abbiamo continuato a ignorare il massacro in Siria (che dura da cinque anni e che ha radici nella lotta popolare contro una tirannia; una lotta finita orfana e preda delle ambizioni di potenze mondiali).

Ecco, se devo dissociarmi, allora mi dissocio e condanno l’inattivismo della comunità internazionale e dell’opinione pubblica di fronte all’ecatombe siriana e agli altri disastri intorno alla fortezza Europa. Condanno l’incomprensione e la superficialità con cui guardiamo ancora al medioriente. Condanno chi alimenta la sindrome d’accerchiamento, nelle società occidentali, per fini elettorali. Condanno gli sciacalli e gli imprenditori della paura, in Europa e nel mondo arabo (da dove vi scrivo), in nome di eterne divisioni che servono alle agende di governi e ad arricchire qualcuno.

Mi associo alle famiglie delle vittime di questi anni scuri, in nome del dialogo e della comprensione. Mi dissocio, non perché me lo hanno chiesto e a prescindere dalla mia fede, da chiunque ha scelto la strada dell’odio e della violenza.