Mafie

Matteo Messina Denaro, arrestati undici fedelissimi del boss latitante

Le indagini della Dda di Palermo hanno disarticolato il sistema di comunicazione del capomafia di Castelvetrano. Durante i summit mafiosi che si tenevano in alcune masserie venivano scambiati pizzini da far arrivare al padrino. Pm: "Nonostante le operazioni, continua a godere di protezione ad alti livelli"


Si muove anche all’estero e da oggi non potrà più comunicare con i suoi favoreggiatori tramite i “pizzini”. È l’ennesimo scacco a Cosa nostra e soprattutto al superlatitante Matteo Messina Denaro, quello messo a segno questa mattina dagli investigatori.  La polizia, coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Palermo, ha arrestato undici fedelissimi dell’ultima primula rossa del clan dei corleonesi. “Gli arrestati non sono semplici tramiti con il capomafia, ma ricoprivano ruoli di vertice nelle cosche trapanesi”, ha sottolineato procuratore di Palermo Francesco Lo Voi.

Ad essere colpito, infatti, è il sistema di comunicazione del capomafia di Castelvetrano che da 22 anni sfugge alla cattura. E che il procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato definisce “una sorta di parassita che non tiene conto dei legami familiari, ma usufruisce dei soldi che i componenti della sua famiglia e del clan possono fargli avere”.

I summit e lo scambio di pizzini
Come Bernardo Provenzano, anche Messina Denaro “parlava” con i suoi uomini tramite “pizzini“. Lo smistamento dei bigliettini avveniva in due masserie nelle campagne di Mazara del Vallo e Campobello di Mazara, di proprietà di due allevatori, oggi arrestati, Vito Gondola e Michele Terranova. Gli inquirenti, che tenevano sotto controllo la zona, hanno accertato che i bigliettini, che erano smistati durante i summit di mafia, venivano nascosti sotto terra.

Solo al termine delle riunioni i “collettori” li andavano a prendere e li davano ai destinatari. I pizzini erano ripiegati e chiusi con dello scotch. Rigide le regole imposte sulla comunicazione: i messaggi dovevano essere letti e distrutti e le risposte dovevano giungere entro termini prefissati, al massimo 15 giorni.

Per convocare i summit gli arrestati, molti dei quali allevatori, utilizzavano termini come ‘concime’ e ‘favino’, cereali dati in genere ai maiali. Gli scambi dei bigliettini a un certo punto hanno subito un arresto, che gli inquirenti ricollegano a un temporaneo possibile allontanamento di Messina Denaro – il cui nome è presente in alcune conversazioni intercettate – dalla Sicilia. I mafiosi non si riunivano mai all’interno delle masserie ma solo nelle campagne, cosa che ha reso più complicato intercettare le loro conversazioni.

Pm Principato: “Messina Denaro gode di protezioni altolocate e si sposta da Sicilia e Italia”
L’operazione “Ermes”, coordinata dal procuratore Lo Voi, dall’aggiunto Principato e dai pm Paolo Guido e Carlo Mazzella, è cominciata nel 2011, quando dopo un blitz di polizia che ha disarticolato la rete dei favoreggiatori, gli uomini d’onore sono stati costretti a riorganizzare la rete di comunicazione. Le misure cautelari sono state notificate ai capi del mandamento mafioso di Mazara del Vallo e dei clan di Salemi, Santa Ninfa e Partanna.

L’operazione, a cui hanno partecipato le Mobili di palermo e Trapani, coordinate dallo Sco e dal Ros, sono una prosecuzione di altre due inchieste – “Golem” ed “Eden” – che hanno portato in cella favoreggiatori e familiari del boss. Nonostante questo, però, “ancora non siamo riusciti a prendere il latitante. Questo può significare solo che gode di protezioni ad alto livello”, ha sottolineato Principato che si è soffermata anche sugli spostamenti del superboss: “Matteo Messina Denaro non sta sempre nel Trapanese, ma si sposta dalla Sicilia e anche dall’Italia”.

“È chiaro – continua il magistrato – che goda di protezioni molto, molto importanti: accertato che oltre a Castelvetrano, Matteo Messina Denaro abbia frequenti contatti con l’estero e quindi anche rapporti consolidati con la criminalità organizzata di altri Paesi che lo rende ancora più difficilmente catturabile”.

“Le indagini escludono che sia in corso una sorta di camorrizzazione di Cosa nostra. La mafia resta una organizzazione unitaria“, ha commentato in conferenza stampa il procuratore Lo Voi. “Queste considerazioni – ha aggiunto – non escludono che ogni mandamento e ogni provincia possano anche curare i propri interessi, ma le decisioni sono prese collettivamente“.

Gli arrestati
Questa mattina sono finiti in manette Giovanni Loretta, 42 anni, Leonardo Agueci, 27 anni, Pietro Giambalvo 77 anni, Vincenzo Giambalvo 38 anni, Giovanni Scimonelli 48 anni, Vito Gondola 77 anni, Giovanni Mattarella 49 anni, Michele Terranova 45 anni, Sergio Giglio 46 anni, Michele Gucciardi 61 anni e Ugo Di Leonardo, 73 anni.

Gondola, Gucciardi, Scimonelli, i due Giambalvo, padre e figlio, Giglio, Di Leonardo e Terranova, sono indagati per associazione mafiosa, Mattarella, Agueci e Loretta per favoreggiamento aggravato dalla modalità mafiosa, per aver agevolato la latitanza del boss.

Nella rete anche un imprenditore rampante
Scimonelli, gestore di un supermercato Despar, originario di Partanna, è componente del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana guidata da Angelo Sandri. Secondo gli inquirenti non avrebbe mai avuto rapporti con esponenti politici del trapanese. Viaggiava spesso tra Bologna e Milano e si era anche recato al Vinitaly, dove aveva presentato un consorzio di produttori di vino. Coinvolto nel novembre del 1988 nell’operazione antimafia “Progetto Belice“, Scimonelli ha riportato nel 2003 una condanna in appello a tre anni e sei mesi di reclusione per associazione mafiosa, incendio e danneggiamenti. Il suo nome è citato anche in anche in alcuni messaggi sms, finiti nell’inchiesta “Campus Belli” del 2011 e che ha coinvolto l’allora sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, condannato, giorni addietro, in appello a 9 anni di reclusione per mafia.

Dalle stragi alla latitanza: ‘U siccu, l’erede di Riina
Ventidue anni di latitanza. Matteo Messina Denaro, soprannominato ‘U siccù (il magro), è la primula rossa di Cosa nostra. Ritenuto il vero capo di Cosa nostra, condannato all’ergastolo per le stragi che hanno insanguinato Roma, Milano e Firenze nel 1993, è considerato l’uomo che ha riorganizzato la mafia dopo gli arresti di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Nato nel 1962 a Castelvetrano, in provincia di Trapani, ha iniziato la sua carriera criminale favorito dalla presenza in famiglia del papà Francesco Messina Denaro, già capo del mandamento di Castelvetrano.

Successivamente ha preso parte ad operazioni mafiose come l’attentato a Maurizio Costanzo ed era stato scelto per eliminare il giudice Giovanni Falcone. Nel 1998 ha assunto il controllo dell’intera provincia di Trapani conquistando una sfera di influenza sempre maggiore arrivando a firmarsi come ‘Alessio’ nei pizzini scambiati con Provenzano con cui si era formato un legame solido. Tanto da diventare, secondo gli investigatori antimafia, il punto di riferimento di Cosa Nostra. Le sue ultime immagini risalgono agli anni Novanta: per questo gli investigatori hanno dovuto preparare e aggiornare gli identikit che potrebbero portare al suo arresto. Perché – hanno ribadito oggi i magistrati – il sostegno attorno al capomafia “sta scemando“.