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Cocoricò, Dj Ralf: “Non date ai dj una responsabilità che non hanno. La droga si combatte con informazione e prevenzione, non con chiusure ipocrite”

Dj Ralf non è un dj qualsiasi. Innanzitutto perché è uno della vecchia guardia, dei dorati anni Ottanta, uno che le discoteche le conosce davvero, visto che le ha frequentate e le frequenta ancora con una certa assiduità. E poi perché è il dj resident del Cocoricò, il locale della riviera romagnola al centro di dibattiti e polemiche infiniti negli ultimi giorni, dopo la discussa chiusura della discoteca ma soprattutto dopo la morte di un sedicenne che proprio lì, nel tempio del mondo discotecaro italiano, aveva preso una pasticca.

L’approccio di Dj Ralf al problema è realista ma non cinico. Sa che il problema della droga esiste, ma non crede che per risolverlo basti chiudere una discoteca. Parla di “educazione e informazione” per ridurre il danno, e quando chiediamo se i dj, ormai vere e proprie divinità della musica globale, debbano fare autocritica, non ci sta e rivendica la “purezza” di quello che fa. Uno come lui, che ha suonato al Divinae Follie, al Goa, all’Hollywood, ai Magazzini Generali, ma anche al Pacha, all’Amnesia, al Privilege e allo Space di Ibiza, passando per Miami, Mykonos, Londra, Hong Kong e Shanghai, non può accettare che tutto il suo mondo, tutta la sua vita, venga criminalizzata in maniera così superficiale e “ipocrita”.

Qual è la prima cosa che hai pensato quando hai letto la notizia della chiusura del Cocoricò?
Al netto di tutto, ho pensato che è la solita soluzione un po’ ipocrita che non risolve niente. C’è un problema? C’è un incidente? Allora chiudiamo il luogo dove l’incidente è avvenuto. Mi sembra che non risolva assolutamente nulla. Una delle classiche vie d’uscita all’italiana. Io sono orgoglioso di essere italiano e tento sempre di tirar fuori tutto il bello che c’è nell’essere italiani, ma purtroppo in certe cose devo ammettere che abbiamo delle vie d’uscita un po’ ipocrite.

Come avresti affrontato il problema?
È difficile dire cosa avrei fatto. Non è un problema solo italiano. Io ho l’abitudine di affrontare le cose da un punto di vista globale. Il fatto che la gente assuma delle sostanze è un problema in ogni angolo del mondo e il modo in cui ci si approccia è un problema planetario.
Se una persona fa uso di una sostanza in un posto e io chiudo quel posto, quella persona andrà nel posto di fianco o a 100 km di distanza. Il problema è molto più profondo e complesso.

Cosa si può fare per smentire l’associazione automatica tra droghe e discoteca?
A Woodstock si saranno fatte le canne, avranno preso degli acidi mentre ascoltavano Jimi Hendrix, Janis Joplin o Joe Cocker? Suppongo di sì. È una cosa in qualche modo prevedibile.
Se fossi il capo del mondo, mi porrei il problema innanzitutto di educare e far conoscere. Invece di disperarsi e nascondere la polvere sotto il tappeto, affrontiamo il problema in maniera pedagogica, soprattutto nei confronti dei più giovani, che non hanno esperienza e non sanno bene di cosa si tratta.
L’uomo ha a che fare da sempre con sostanze che alterano il suo stato naturale, a partire dal vino fino ad arrivare alle droghe. Serve educazione per affrontare il problema alla radice. Si ridurrebbe il danno, come si fa in tanti altri paesi, attraverso prevenzione, assistenza e informazione: se fai questo, ti può succedere questo.
Ma non possiamo circoscrivere il luogo in cui la gente si altera in un recinto che chiamiamo discoteca. La gente si altera ovunque. Non si risolve la questione semplificando.

I dj, ormai star a livello planetario, non dovrebbero fare un po’ di autocritica?
Io non credo di dover fare autocritica. Io faccio una cosa che in sé è pura: celebro una ritualità che è vecchia come l’uomo. Mia madre e mio padre probabilmente si sono incontrati in una sala da ballo. Quale colpa possiamo avere noi? Mi occupo di questo perché mi piace la musica, è la mia vita. Ci stanno addossando responsabilità che non abbiamo: non si possono criminalizzare i Pink Floyd se qualcuno, ascoltando Ummagumma, ha assunto sostanze psicotrope.

Pensa per un attimo di rivolgerti a un diciottenne che vuole venire a sentire la tua musica: che approccio gli consiglieresti?
Il fatto di trovarsi insieme e di muoversi al ritmo di una musica, del guardarsi, della bellezza di un corpo che si muove, il piacere di esprimere se stessi attraverso i movimenti del corpo, travalicano qualsiasi stato di alterazione. Sono essi stati fatti alteranti in modo naturale. La ripetizione di forme sonore e ritmo è di per sé un fatto che trasporta in una dimensione di piacere naturale. Non c’è bisogno di doversi imbottire di chissà cosa per godere di questo fenomeno.