Scienza

Alzheimer, la scoperta dell’università Usa: ‘Diagnosi precoce da studio biomarcatori’

Uno studio pubblicato su Jama Neurology spiega come i ricercatori della Washington University siano riusciti a prevedere lo sviluppo della malattia anni prima che si manifestino i primi sintomi di demenza senile

Come recita un vecchio adagio, in medicina prevenire è meglio che curare. Anche contro l’Alzheimer. Ne è convinto un team di ricercatori della Washington University a St. Louis, che ha scoperto che le variazioni di alcuni biomarcatori permettono di prevedere lo sviluppo della malattia molti anni prima che si manifestino i primi sintomi di demenza senile.

Lo studio, pubblicato su “Jama Neurology”, ha tra i suoi obiettivi l’identificazione di potenziali strategie per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, una delle più diffuse patologie neurodegenerative, che colpisce nel mondo più di 25 milioni di persone, soprattutto anziani sopra i 65 anni di età, in prevalenza donne. Una cifra destinata a triplicare entro il 2030 toccando i 76 milioni di casi, secondo le previsioni dell’Alzheimer’s disease international (Adi).

I ricercatori americani hanno misurato per dieci anni nel liquido cerebrospinale di 169 individui, di età compresa tra 45 e 65 anni, i livelli di alcuni marcatori clinici tipici dell’Alzheimer, malattia le cui origini sono in parte genetiche, in parte ambientali. A partire dalla proteina “beta amiloide 42”, il principale componente delle placche che si formano nel cervello dei pazienti con Alzheimer, per proseguire con la proteina “tau” e “YKL-40”, quest’ultima considerata un marcatore per l’infiammazione delle cellule cerebrali. Gli studiosi hanno così scoperto che se, in particolare, i livelli di proteina beta amiloide 42 erano bassi, aumentava nei pazienti la probabilità di ammalarsi di Alzheimer.

L’analisi dei livelli cerebrali dei biomarcatori è stata accompagnata anche dalla tradizionale Pet, tomografia a emissione di positroni, per individuare l’eventuale presenza di placche amiloidi associate alla malattia. E, soprattutto, dall’esame di alcuni geni, come “Apo-E”, responsabile della produzione di una proteina coinvolta nel trasporto del colesterolo. Alcune varianti di questo gene, infatti, sono note in letteratura medica per essere strettamente legate a un aumento della probabilità di sviluppare forme di demenza.

“Lo sviluppo dell’Alzheimer è un processo a lungo termine – spiega Anne Fagan, che coordina il team Usa -. È ancora troppo presto per potere usare questi marcatori a scopo diagnostico su singoli pazienti. Ma è proprio questo – conclude la studiosa – il nostro obiettivo: riuscire un giorno a effettuare trattamenti terapeutici sui malati molti anni prima che si manifestino i sintomi della demenza”.