Scienza

Cancro, il test compilato dai pazienti sugli effetti soggettivi dei farmaci antitumorali

La fase pilota è appena partita e il lavoro durerà un paio d'anni. “Le industrie - spiega Silvio Garattini dell'istituto Mario Negri - hanno molto più interesse a studiare i benefici che i danni dei farmaci. Così finisce che i primi sono sopravvalutati e i secondi sottovalutati"

Un test per conoscere le reazioni avverse ai farmaci, stilato dagli stessi pazienti sottoposti alla cura. Ora anche in Italia il malato di cancro ha voce in capitolo sui farmaci antitumorali. Può segnalare cioè tutti gli effetti collaterali della terapia che accusa sulla sua pelle. Quelli soggettivi, insomma. Come nausea, vomito, perdita di memoria, caduta dei capelli, stitichezza, diarrea, inappetenza, sudorazione, emicrania, fastidi vari (per esempio gonfiore alla pancia).

Grazie a un questionario di 78 domande, il Pro-ctcae, messo a punto dal National cancer institute americano, già sperimentato in Giappone, Spagna e Germania, e importato in Italia con la mediazione delle associazioni di pazienti (sotto l’ombrello della Favo), quella dei medici oncologi (Aiom) e la collaborazione della Fondazione Smith-Kline. Trecento pazienti coinvolti di venti centri diversi distribuiti su tutto il territorio nazionale, tra questi l’Istituto nazionale dei tumori di Milano, quello di Napoli, l’Ospedale “Umberto I” di Roma, gli “Istituti ospitalieri” di Cremona, il “San Matteo” di Pavia e l’Istituto scientifico tumori di Genova.

“L’obiettivo è valutare l’impatto delle cure nella qualità della vita del paziente a casa e sul lavoro” spiega Francesco Perrone, responsabile dell’Unità sperimentazioni cliniche all’Istituto nazionale dei tumori di Napoli. Non solo. “Coi dati alla mano – continua Perrone – potremo fornire più dettagli sulle conseguenze della chemioterapia e quindi essere più onesti con lui. Avere una maggiore coscienza gli consente di sopportare meglio la cura, gestire la quotidianità, evitare che vada nel panico se avverte qualcosa di strano, senza rischiare di rovinare il rapporto di fiducia con il medico. Laddove possibile, poi, si può intervenire modificando il dosaggio del farmaco”.

Nel dialogo tra medico e paziente viene trascurata una serie di eventi anomali (insonnia, paura, ansia, aggressività, depressione, indebolimento delle unghie, cambiamento della pelle, tanto per citarne alcuni) perché “le domande magari sono un po’ vaghe e chi risponde o si vergogna a entrare nei particolari o se ne scorda. Con il test il problema è risolto – secondo l’oncologo -. La valutazione della tossicità diventa metodica e approfondita”.

Negli Stati Uniti il Pro-ctcae è una pratica ormai consolidata in fase di ricerca cliniche. Tre studi condotti dall’Istituto dei tumori di Napoli, uno nel 2009, l’altro nel 2012 e l’ultimo a gennaio 2015 (uscito sul Journal of clinical oncology), su un campione di oltre mille pazienti oncologici, hanno preso in esame sei tossicità basate sulla percezione soggettiva (nausea, vomito, anoressia, alopecia, diarrea, stipsi) e hanno dimostrato che dal personale medico e scientifico sono sottostimate nel 47 per cento, fino al 74 per cento, dei casi.

La fase pilota del test è appena partita. Seguirà l’analisti delle risposte e la condivisione dei risultati con il National cancer institute. Il lavoro durerà all’incirca un paio di anni. Dopodiché il questionario sarà uno strumento di pubblico dominio. La farmacovigilanza (cioè la raccolta e la valutazione delle informazioni sui farmaci, comprese le reazioni avverse, gli abusi e gli usi impropri) è ancora un tunnel buio senza luce.

L’11 aprile Richard Horton, direttore di Lancet, una delle più autorevoli riviste scientifiche al mondo, in un editoriale ha dichiarato che “la maggior parte della letteratura scientifica, anzi la metà, è semplicemente falsa”. Perché gli studi sono fatti su “piccoli campioni” (per periodi brevi) e con “scarsi risultati”, e la scienza ha “l’ossessione di seguire trend alla moda di dubbia importanza”.

Le sperimentazioni, ricordiamolo, sono finanziate da Big pharma, cartello che riunisce le grandi multinazionali del farmaco e che, peraltro, promuove i convegni rivolti ai medici per diffondere i risultati. Inoltre offre contributi alle associazioni di pazienti che fanno uso dei suoi farmaci. Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, lo ripete da anni. “Le industrie – spiega a ilfattoquotidiano.it – hanno molto più interesse a studiare i benefici che i danni dei farmaci. Così finisce che i primi sono sopravvalutati e i secondi sottovalutati. Per garantire trasparenza la ricerca dovrebbe essere svolta da enti indipendenti, che mantengono la proprietà dei dati, ma finanziata comunque dall’industria. E il Sistema sanitario nazionale dovrebbe vigilare”. E invece “non lo fa – dice – perché non ha abbastanza soldi, ma ce li ha per pagare ogni anno almeno 18 miliardi di farmaci, anche quelli spacciati per nuovi, che in realtà sono delle copie di quelli esistenti. Siamo pieni di statine e di antipertensivi di ultima generazione ma non c’è prova della loro maggiore efficacia, eppure costano di più. Se lo Stato investisse sulla ricerca, risparmierebbe nella spesa farmaceutica”.

In Italia il sistema di farmacovigilanza è regolato dal decreto legislativo 219 del 2006 e si basa su una rete nazionale (formata da strutture sanitarie, centri regionali e aziende farmaceutiche) che fa capo all’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) e si occupa di gestire e valutare le segnalazioni. “È una forma di vigilanza passiva, ne serve una attiva – insiste Garattini -. Non basta aspettare le denunce, le tossicità vanno cercate. Qualcuno entri nei pronto soccorso e indaghi se il malessere dei pazienti è causato dall’assunzione di alcuni farmaci. Oggi questa attività è lasciata alla buona volontà di qualche medico e farmacista”.

Altra lacuna: “Gli effetti collaterali raccolti non vengono ancora catalogati e messi a disposizione dei cittadini. Il Sistema sanitario e i ricercatori dovrebbero creare un sistema di valutazione accessibile online”. La registrazione pubblica dei clinical trials approvata dal Parlamento europeo poco più di un anno fa lascia il tempo che trova per il farmacologo. “Non è un obbligo per le aziende farmaceutiche e ci sono molte resistenze al riguardo. Servirà a poco”. Tra l’altro il database raccoglie solo gli studi fatti a partire dal 2014. Su tutti gli altri, di cui abbiamo i cassetti pieni, c’è un silenzio tombale.