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Rai Tre e Real Time, il format dei “diversi” che parlano come noi (italiani)

In “Radici”, il libro, un discendente del Kunta Kinte rapito dagli schiavisti ritrova in Africa il filo della propria origine. In Radici di Rai Tre, sabato scorso un giovane tunisino immigrato a Torino per fare il regista torna a visitare la famiglia. Il documentario ha ottenuto il 3,73% con una buona tenuta (28%) degli spettatori che vi erano incappati.
Su Real Time, nelle ore successive, Italiani made in China, protagonista un gruppo di giovani sino-italiani di seconda generazione in giro per Shanghai, ha ottenuto il 2,19% e una tenuta d’ascolto simile (30%).

In ambedue i formati l’elemento di attrazione erano i diversi da noi che parlano come noi: cinesi che chiudi gli occhi e sembrano Salvini, maghrebini padroni dell’italiano neutro usato dai più colti. Non più stranieri né strani. Perché la questione della diversità a ben pensare sta tutta nelle orecchie. Non per caso “barbari”, secondo una etimologia corrente, erano per i Greci antichi quelli che “farfugliano”.

La constatazione non è nuova e a noi toccò nel 2008 quando tentammo per La7 una serie, “Barbari”, per “capire dal di dentro” le etnie che si allargavano nel Paese. Oggi, la situazione è maturata, le seconde generazioni sono cresciute e con esse i ponti, che funzionano meglio di qualsiasi muro. Gli stranieri sono perfino entrati a fare parte del campione auditel, che è tutto dire. Così i media trovano istintivamente la spinta per fare programmi che alla ricerca di un pubblico producono “assimilazione” più di quanta ne possa ottenere qualsiasi appello antirazzista. E l’efficacia sarebbe esponenzialmente maggiore se e quando produttori e sceneggiatori riuscissero a mettere massicciamente in campo le risorse della narrazione romanzesca, del nomination game (un esempio è stato “PechinoExpress”), dei vari tipi di format, così incorporando le più larghe fasce di pubblico.

Insomma, così come – spiegava Adam Smith– troviamo il pane grazie all’interesse e non al buon cuore del fornaio, c’è da sperare che i media, come parrebbe dai due esempi accennati, comincino davvero a tenere conto non solo della famosa “casalinga di Voghera” (il prototipo del telespettatore un po’ semplice), ma anche della sua vicina di pianerottolo, quella che parla ancora strano, a differenza dei figli che da scuola tornano più che esperti delle parolacce nostrane.

Niente di meglio per frantumare gli spadoni in mano ai pifferai della paura; sicuramente meglio che contare sull’efficacia delle esortazioni alla virtù dell’accoglienza. Perché la virtù, si sa, è soggetta a usura.