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Armenia, Wegner: il “giusto” che denunciò la strage. E sfidò il nazismo scrivendo a Hitler

In un libro di Gabriele Nissim edito da Mondadori la storia di Armin Wegner, scrittore e militante pacifista, il primo a documentare lo sterminio degli armeni. E uno dei pochissimi, vent'anni dopo, a esporsi personalmente firmando una lettera spedita al Führer

Un visionario, un temerario, un incosciente. Ma soprattutto un “giusto”. Tutto questo è stato Armin T. Wegner. Tedesco, scrittore e militante pacifista, volontario come militare paramedico nella prima guerra mondiale, fu il primo a denunciare e a documentare lo sterminio degli armeni (cui aveva contribuito l’esercito tedesco alleandosi con quello turco nella campagna d’oriente). E uno dei pochissimi, vent’anni dopo, a esporsi personalmente scrivendo una lettera aperta a Hitler in cui lo esortava a porre fine alla discriminazione e alla persecuzione degli ebrei.

Proprio “La lettera a Hitler” (Mondadori) è il titolo dell’appassionante biografia che gli dedica Gabriele Nissim: uno che di “giusti” se ne intende, avendo fondato Gariwo, la foresta dei giusti, che ricerca e promuove la conoscenza di quegli eroi sconosciuti che si sono opposti a genocidi e totalitarismi salvando vite umane a rischio della propria. Figura complessa, quella di Wegner, ricostruita da Nissim attingendo al fondamentale lavoro di Johanna Wernicke-Rothmayer, che nel 1965 riscoprì la famosa lettera e il suo autore lavorando per lui come assistente-dattilografa a Roma, dove Wegner si era rifugiato e dove lei, giovane studentessa, era appena arrivata. Pochi, a quell’epoca, conoscevano Wegner e quella missiva che nel 1933 gli era costata l’arresto, la tortura e la deportazione. Quasi nessuno, poi, aveva memoria della sua lontana denuncia del genocidio armeno. Tantomeno Johanna, che apprese della lettera a Hitler dalla viva voce di Wegner, allora quasi ottantenne: un giorno gliela dettò e le chiese di spedirla in decine di copie ad altrettanti politici di tutto il mondo. La ragazza non diede inizialmente credito a quello che considerava il vaniloquio di un vecchio bislacco fissato con gli ebrei e gli armeni. Ma dovette ricredersi anni dopo quando, all’università, scoprì chi era quell’eroe dimenticato. E decise di approfondirne la storia tornando a Roma per raccogliere i suoi ricordi e dedicargli la sua tesi di laurea.

Su quella tesi e su molti manoscritti originali di Wegner, alcuni dei quali inediti, si basa il lavoro di Nissim, che scava in profondità sulla grandezza e sulle contraddizioni di questo combattente solitario contro i due genocidi del Novecento. Scopriamo infatti che Wegner, pur sconvolto dalle atrocità compiute dai turchi contro gli armeni e dal colpevole silenzio-assenso degli alleati tedeschi, benché avesse sotto gli occhi le fotografie che lui stesso aveva scattato della deportazione di quel popolo dalla Turchia alla Siria in condizioni disumane, delle violenze, umiliazioni, malattie patite da uomini, donne e bambini, infine del loro sterminio, pianificato ed eseguito con lucidità portandoli a morie nel deserto, insomma pur testimone di tutto questo, non ebbe per anni il coraggio di denunciare tali orrori. Anzi, in alcune corrispondenze da Costantinopoli e in altri articoli scritti al ritorno dalla guerra elogiò la rivoluzione dei Giovani Turchi autori del massacro.

Solo tre anni dopo Wegner raccontò il massacro e rese esplicito tutto il suo tormento in un articolo pubblicato su Der Neue Orient il 25 novembre 1918. Noi sapevamo tutto, ammise, e fummo “costretti a nascondere questi fatti in Germania durante la guerra” mentre “i giornali imperialisti tedeschi presentarono l’intera storia come un’incredibile bugia”. Il 19 marzo del 1919 fece un ulteriore passo presentando a Berlino una conferenza dal titolo La deportazione degli armeni nel deserto illustrata da centinaia di fotografie che lui stesso aveva scattato e che, a tutt’oggi, restano l’unica testimonianza visiva della persecuzione degli armeni.

È dagli orrori dei quali era stato testimone e dalla colpa che sentiva di portare addosso in quanto soldato e cittadino di un Paese complice di quello sterminio e del silenzio che ne era seguito, che nasce probabilmente il germoglio della lettera a Hitler, scritta quindici anni dopo. Ma fu l’amore per Lola, sua moglie e madre dei loro tre figli, la molla che lo spinse a sfidare il fhürer e a invocare il risveglio dei suoi concittadini. Lola Landau era ebrea.

Quando il 1°aprile del 1933 Lola tornò a casa scossa e impaurita dai cartelli esposti nei negozi nei quali era scritto “vietato l’ingresso agli ebrei”, dal dileggio dei commercianti che fino al giorno prima erano stati felici di servirla, dalla violenza con cui i militari facevano osservare quel diktat, Wegner capì che questa volta non poteva tacere. La sua lettera a Hitler (qui la versione integrale) venne spedita il 20 luglio di quell’anno. Quel che colpisce nello scritto è il richiamo, prima ancora che alle sofferenze inflitte agli ebrei, alla vergogna di cui si macchierà la Germania continuando le persecuzioni. “Verrà un giorno in cui il 1° aprile 1933 e le settimane successive saranno richiamati alla memoria di tutti i tedeschi soltanto come una penosa vergogna”. Siamo solo nel 1933, ben prima delle deportazioni di massa e dello sterminio nelle camere a gas e Wegner pensa di potersi impunemente permettere di scrivere al Führer: “Signor Cancelliere del Reich, protegga la Germania proteggendo gli ebrei!”. Sarà arresto subito dopo l’arrivo a destinazione della sua lettera.