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Israele, Obama mai così duro: “Parole di Netanyahu rendono più difficile la pace”

Il giorno prima del voto del 17 marzo il premier israeliano aveva affermato che “con me come premier, non ci sarà uno Stato palestinese” con lo scopo di raccogliere il voto della destra dei coloni, dei nazionalisti, degli ortodossi religiosi. Parole che, afferma il capo della Casa Bianca, “confliggono con la natura più profonda della democrazia israeliana”

Chi avesse creduto, o sperato, in un mutamento di rotta nei rapporti tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu dopo le elezioni israeliane, si deve ricredere. In un’intervista all’Huffington Post pubblicata sabato, Obama dice che le affermazioni fatte dal premier israeliano nelle ultime ore della campagna elettorale “rendono più difficile” il percorso verso la pace e “confliggono con la natura più profonda della democrazia israeliana”. Mai, nel passato, un presidente americano era andato così a fondo nel criticare la politica di un primo ministro israeliano.

Obama ha atteso due giorni pieni prima di telefonare a Netanyahu e congratularsi per la vittoria elettorale. Un segno che lo “sgarbo” compiuto da Netanyahu con il suo discorso al Congresso Usa – invitato dai repubblicani senza passare per la Casa Bianca – non è stato dimenticato. Nell’intervista, Obama comunque rivela che la telefonata a Gerusalemme non è stata di pure congratulazioni. Anzi. Il presidente americano si sarebbe lanciato in una critica piuttosto articolata di quanto detto da Netanyahu in campagna elettorale, sino a paventare la possibilità che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele, soprattutto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, potrà cambiare.

Obama si sarebbe anzitutto lamentato con Netanyahu per le affermazioni contrarie alla soluzione dei “due Stati”. “Gli ho fatto presente che, considerate le sue dichiarazioni pre-elettorali, diventa difficile trovare un percorso che permetta di credere che i negoziati sono possibili”, ha spiegato Obama. Il giorno prima del voto Netanyahu aveva affermato che “con me come premier, non ci sarà uno Stato palestinese”; un’affermazione che aveva lo scopo chiaro di raccogliere il voto della destra dei coloni, dei nazionalisti, degli ortodossi religiosi, e che il premier, una volta vinte le elezioni, ha in qualche modo ritrattato, spiegando di essere a favore della soluzione dei due Stati, “se le condizioni sul terreno lo permetteranno”.

Obama mostra di non aver gradito le oscillazioni a caccia di voti di Netanyahu precisa: “Bene, prendiamo le sue parole per buone quando dice che uno stato palestinese non nascerà mai durante il suo periodo come primo ministro, e a questo punto dobbiamo valutare quali altre opzioni sono disponibili per far sì che nell’area non si sviluppi una situazione caotica”. Obama va ancora più in là e spiega che quanto promesso da Netanyahu a coloni e religiosi non può in nessun modo essere accettato dall’amministrazione americana: “Non si può accettare un perpetuo status quo, che allarghi gli insediamenti – semplicemente questa non è una ricetta che garantisca la stabilità della regione”.

Gli accenti più duri Obama li trova sul tema dell’appello – che molti in Israele hanno bollato come “razzista” – fatto da Netanyahu agli elettori di destra il giorno delle elezioni. Per convincerli ad andare ai seggi, Netanyahu aveva lanciato l’allarme sugli arabo israeliani “che vanno a votare in massa”. “Abbiamo fatto presente a Netanyahu – dice ora Obama – che questo tipo di retorica è contraria alle migliori tradizioni di Israele; che sebbene Israele è stata fondata sulla necessità di una patria per gli ebrei, la democrazia israeliana si fonda sulla premessa che ognuno nel Paese sia trattato in modo giusto e paritario”. Se questo non dovesse avvenire, chiosa Obama, in quella che è forse la parte più dura e perentoria dell’intervista, “non soltanto si daranno munizioni a coloro che non credono in uno Stato ebraico, ma comincerà a erodersi anche il significato di democrazia nel Paese”.

Nessun presidente americano, nel passato, era mai arrivato a usare accenti così forti nei confronti di un leader regolarmente eletto di Israele; sino quasi a mettere in discussione la natura democratica e pluralistica del progetto politico in corso a Gerusalemme. Nella capitale israeliana, in questo momento, tra i politici, sui media e nelle élite culturali e sociali è in corso un dibattito su dove questa ormai manifesta insofferenza di Washington potrebbe condurre. Escluso che gli Stati Uniti possano ripensare l’aiuto alla Difesa di Israele – 3 miliardi di dollari all’anno – l’ipotesi più probabile è che l’amministrazione Usa possa ammorbidire la sua opposizione al riconoscimento dello Stato palestinese. L’ipotesi, fantascienza sino a qualche mese fa, appare ora una possibilità, soprattutto se i rapporti personali tra Obama e Netanyahu dovessero continuare a precipitare. Per il governo israeliano, a questo punto, una possibile via
d’uscita verrebbe soltanto dal prossimo, convulso inizio della campagna presidenziale Usa, e dall’arrivo sperato alla Casa Bianca nel 2016 di un presidente repubblicano.