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Riforma Rai: pubblicità sì, pubblicità no. La versione di Cairo (La7)

Ieri ci siamo infilati in cose più grandi di noi (Tunisi e le Testate Multiple della Rai) sicchè  oggi pensavamo di farci perdonare parlando delle dame da video (Venier, D’Urso e le altre a seguire). Senonché, ecco che ti spunta Urbano Cairo a inzigare su un aspetto fondamentale, forse il cuore, di quel serissimo dossier chiamato “riforma della Rai”. E così ci tocca di nuova di fare i seri, per davvero. Dice Cairo: va bene una rete Rai senza pubblicità, come annuncia Renzi, ma sulle altre due, la Prima e la Seconda, come la mettiamo? Continueranno a pescare sia dal canone che dalla pubblicità? Continueranno a imbastardire il gioco della concorrenza?  Dovrò con la mia La7 continuare a contendere i clienti pubblicitari all’azienda di stato che arricchisce i suoi programmi grazie alla sovvenzione assicurata da chi non evade il canone?

E qui c’è da ricordare che all’estero le aziende radiotelevisive pubbliche bastarde non sono perché se incassano il ricavo pubblico (BBC) non hanno quello pubblicitario e se puntano al secondo non hanno tracce del primo (Channel Four); oppure si limitano a una spruzzatina di pubblicità (come  fanno le “Rai” di Francia e Germania) e comunque non in prime time.

Stando così le cose e i confronti, è impossibile dare torto a Cairo. Ma si dovrà anche fare molta attenzione a “come” dargli ragione. Perché se, all’indomani della riforma, la Rai dovesse dare un taglio ai suoi ricavi pubblicitari (ad oggi circa 700mln, un terzo, o giù di lì, rispetto alle entrate complessive dell’azienda pubblica; sei volte maggiori dei ricavi di la7; ma appena un terzo di quelli di Mediaset) non se ne avvantaggerebbero le tv desiderose di crescere, ma l’altro pezzo grosso del sistema del Duopolio.

E perché, vi domanderete, non è Mediaset a reclamare l’espulsione della pubblicità dalla Rai, visto che ne avrebbe la maggiore convenienza? La risposta è semplice: per non smuovere le acque di quel mirabile equilibrio fra la mano pubblica e le proprie sul quale da trenta anni prospera il Biscione. Però, se proprio dovesse capitare, non starebbe certo a bocca chiusa senza addentare gli investimenti pubblicitari cui rinunciasse la Rai.

Insomma, qui il problema è di puntare alle cose giuste, come quelle che reclama Cairo,  ma senza ritrovarsi a fare gli amici del giaguaro.

Un approccio strategicamente niente male alla delicatissima questione è quello di Massimo Mucchetti sul Sole 24 Ore di martedì, dove si ipotizzano i seguenti passi: 1) estrarre dal perimetro della Rai, destinataria del canone, una rete che conti solo su ricavi commerciali; 2) farne una public company, con tanto di golden share –cioè di guinzaglio- statale, da collocare esterna ed estranea rispetto al gruppo Rai, affinché possa lanciarsi, forte del marchio e di una posizione di prima fila sul telecomando, verso alleanze e integrazioni con altri operatori di mercato: i Cairo, i Discovery, magari anche Sky, e anche gruppi editoriali. Fate voi, ma escludete Mediaset, perché il troppo stroppia, e l’antitrust, se non la decenza, non lo consentirebbe mai.

Certo, sarebbe una impresa davvero erculea quella richiesta alla nuova Governance della Rai se venisse impegnata a costruire, diciamo entro un paio d’anni e al fine si separarsene, una azienda tv che campi di soli proventi commerciali (un Channel Four italiano, alla buon’ora!). Ma non per caso Ercole (quello del mito, non l’Incalza) veniva adibito a imprese eccezionali eppure indispensabili. Come ripulire le Stalle di Augìa o, nel nostro caso, quelle del Duopolio. Anzi, dell’intero mondo dei media nazionali.