Politica

Dissesto idrogeologico, il libro nero dei Commissari: “Lasciati soli dal governo”

Per l'emergenza dal 1998 sono stati stanziati 2,4 miliardi: 4mila gli interventi previsti, solo 100 quelli realizzati. Il governo Renzi ha cacciato i commissari che rimandano le responsabilità del fallimento a Roma e alle Regioni: "Totale assenza di supporto e di direttive ministeriali, snervanti attese per le risorse, procedure inadeguate, interventi legislativi schizofrenici". Ecco la loro verità, regione per regione

Ci eravamo tanto commissariati. Avevamo speso fior di quattrini per garantire tecnici di alto profilo a capo di strutture emergenziali alle prese col rischio idrogeologico, mai risolto flagello d’Italia. L’emergenza non è finita ma i commissari non ci sono più: sei mesi fa il governo Renzi li ha mandati a casa delegando direttamente i presidenti delle Regioni che dovrebbero riuscire laddove loro hanno fallito. Ma erano poi troppi, brutti e cattivi? E’ davvero colpa loro se 2,4 miliardi di euro stanziati dal 1998 a oggi non sono stati spesi? La questione non è irrilevante, dal momento che il governo, tolti di mezzo i commissari, ha disposto un nuovo piano da 1,7 miliardi per 1.155 interventi e ne ha affidato l’attuazione direttamente alle Regioni, enti “corresponsabili” del progressivo naufragio del territorio. La Commissione per il federalismo fiscale lo ha certificato andando a spulciare i loro bilanci: tra il 2009 e il 2012 – gli anni dell’ultima grande infornata di finanziamenti – hanno destinato solo 1,1 miliardi alla voce “cura del territorio”, lo 0,6% delle risorse disponibili. La stessa cifra che hanno riservato alle indennità dei loro assessori. Non un euro di più.

E allora, chi ha ragione? Ma soprattutto, le decisioni del governo riusciranno a raddrizzare l’ingloriosa storia commissariale? Di quella storia c’è una specie di libro mastro del fallimento: 718 pagine di relazioni conclusive sull’attività svolta dagli ingegneri e gli architetti via via nominati dal Palazzo Chigi. Quel malloppo di carte, trasmesso alle Camere il 28 gennaio, apre un mondo fatto sì di compensi d’oro, gambe di legno e tanta burocrazia ma anche di una guerra frontale e continua tra enti centrali e periferici dello Stato su fondi, autorizzazioni e pagamenti. In quelle relazioni è dettagliato quel che nessuno è riuscito a spiegare: come sia stato possibile che su 4mila interventi “urgenti” finanziati dal 2009 quelli conclusi siano solo 109 , mentre l’80% è ancora da cantierizzare. Una classica storia italiana, dove tutti sono colpevoli e non lo è nessuno. Eccola, raccontata attraverso gli atti ufficiali di chi l’ha scritta.

L’ex commissario delle Marche, il biologo Antonio Senni, prende servizio il 9 marzo 2011 e dopo sette mesi è già costretto a scrivere una nota al Ministero nella quale lamenta il mancato trasferimento delle risorse per avviare le opere del cronoprogramma da parte degli enti – Regione e Ministero stesso – che l’avevano sottoscritto un anno prima, il 25 novembre 2010. Impossibile, mette nero su bianco, rispettare la tabella di marcia prevista a fine 2011. A pagina 5 della sua relazione si legge: “Stante la mancanza di comunicazioni al riguardo da parte dei soggetti sottoscrittori, ho chiesto al Ministero di poter introitare nella contabilità speciale una prima erogazione dei fondi per un importo di 17,4 milioni. (…) Purtroppo tale nota non ha avuto significativi esiti per cui il commissario nel 2011 non ha avuto le somme richieste e tantomeno una parte significativa delle stesse”. Non stupisce, allora, se dopo tre anni solo 33 interventi fossero stati finanziati, appena 8 quelli conclusi mentre 22 erano erano rimasti al palo perché “privi di copertura finanziaria”, per totali 17 milioni di euro. Da qui, la sfiducia verso il repentino passaggio di consegne al “governatore commissario” per il quale Sensi prefigura niente meno che “uno scenario di danno temuto”, causa ritardi, da rappresentare come azione cautelare alle autorità.

Con il 19,4% del territorio interessato da “alta criticità”, l’Emilia Romagna è in cima alla classifica del rischio. Nella sua relazione il prefetto il Vincenzo Grimaldi spiega le difficoltà che ha trovato nel provvedere alla missione che gli era stata affidata dal 2010. Sono essenzialmente legate all’incertezza sulla disponibilità effettiva delle risorse: quando lascia, ci sono ancora 32 milioni di euro assegnati e mai trasferiti nella “contabilità speciale” del commissario. Ma non c’è solo questo. In subordine, ha pesato il balletto sulla proroga dell’incarico che scadeva il 9 dicembre 2013, veniva riconfermato per decreto dalla Presidenza del Consiglio il 28 gennaio, trasmesso alla Regione il 16 aprile. Così, tra il 10 dicembre e il 16 aprile, per quattro mesi, “non è stato possibile dar corso ai pagamenti a causa dell’impossibilità di firmare i relativi mandati”. E la chiamavano “emergenza”, verrebbe da dire. Comunque sia, quando Grimaldi lascia l’incarico gli interventi ultimati erano metà di quelli previsti: 143 su 256. Congedandosi, il commissario si premura di far sapere che nel 2014 gli sono stati liquidati compensi per 452. 906 euro, 154.798 riferiti all’anno in corso.

Giuseppe Romano, ex commissario per la Liguria, è uno dei pochi ad essersi dimesso dall’incarico. Il suo nome è rispuntato in occasione dell’ultima, tragica, alluvione di Genova. L’incarico era iniziato nell’ottobre del 2010 e il 20 marzo 2014 scrive la relazione conclusiva del suo lavoro. A pagina 351 del dossier si leggono le motivazioni che il 3 giugno 2013 lo avevano indotto a farsi da parte: gli interventi mai realizzati per l’adeguamento idraulico funzionale del Bisagno. Per il torrente, quello della piena di Genova dell’ottobre 2010, ci sono 35 milioni di euro già impegnati e finora mai spesi. Per due anni restano incagliati in una surreale vicenda di ricorsi al Tar che nessuno si premurava di districare fino alla pronuncia del Consiglio di Stato. Neppure le dimissioni di Romano servirono a sbloccare la situazione. Un anno e mezzo dopo, il 9 ottobre 2014, il torrente è straripato provocando un morto. Polemiche, accuse incrociate e poi il silenzio. Quella ricostruzione ora è agli atti.

Non è andata meglio al commissario per l’Abruzzo. Emilio Santori, ingegnere e sub commissario Ispra che si ritrova l’emergenza nell’emergenza. Viene nominato l’8 marzo 2011, a quattro mesi dall’arresto del predecessore, Gianfranco Mascazzini, storico direttore generale del Ministero dell’Ambiente coinvolto nell’inchiesta della Procura di Napoli sullo smaltimento del percolato nelle discariche campane e in quella sulle bonifiche fantasma a Marghera. Santori si ritrova a gestire 40 milioni di euro di fondi assegnati per fronteggiare un territorio che per il 12% è soggetto a rischi di frane e alluvioni, con una soglia del 3% superiore alla media nazionale. L’incarico gli viene conferito a marzo ma “L’operatività commissariale è stata possibile solo a partire da fine dicembre 2011”. Nove mesi dopo perché solo il 7 dicembre la Presidenza del Consiglio ha emanato il decreto che consentiva di utilizzare le risorse per la gestione delle attività.
 I primi 6,2 milioni provenienti dalla “contabilità speciale” arrivano cinque mesi dopo la nomina, gli altri 14,5 dopo otto mesi, la terza tranche quasi due anni dopo (23 mesi). Ritardo dopo ritardo, quando Santori lascia l’incarico la situazione di cassa è questa: sui 31,6 milioni di euro in dotazione ne erano stati spesi solo cinque. Per la struttura commissariale se n’erano andati 481.532,27, il 10% di quanto speso.

Nel 1993 gli riuscì ò’impresa di far tutelare i famosi “Sassi” dall’Unesco come Patrimonio mondiale dell’umanità. Col dissesto all’italiana i miracoli non riescono. Il territorio della Basilicata è pesantemente compromesso, tanto che nel 2009 – quando s’imbastiscono gli Accordi di Programma – vengono individuati 330 interventi, per un fabbisogno di circa 300 milioni. L’ultimo commissario delegato ad attuare quelli selezionati come prioritari è l’ex sindaco di Matera Francesco Saverio Acito. La relazione porta la data 31 dicembre 2014 ma l’incarico era scaduto a marzo. Siccome nessuno lo rinnova “l’intera attività tecnico-amministrativa resta bloccata sino al 24 giugno 2014″, quando il governo licenzia i commissari. Tre mesi di vuoto a fronte di un ruolino che marcia in ritardo e costringe a rimodulare gli obiettivi in base alle risorse effettivamente stanziate. Gli interventi avviati sono 106, per 35 milioni di euro. La Regione Basilicata accredita però solo metà delle risorse di propria competenza: “ad oggi – scrive il commissario subentrante – risulta pervenuto solo un parziale accredito, pari a 13.744.667,23“. A un passo dal dissesto è la struttura commissariale perché la situazione può “determinare condizioni di “debito” per l’Amministrazione, se non venisse garantito il pagamento degli stati d’avanzamento dei lavori, con la necessaria tempestiva copertura con l’accreditamento preventivo delle somme si aggiungerebbe il danno, per l’economia reale del territorio, l’accrescersi del “costo” delle opere per gli appaltatori in conseguenza dei ritardi nei pagamenti”. La gestione si chiude con 446mila euro di spese, compresi 189.983 come compenso per il commissario e 23mila di rimborsi.

Quasi tutte le relazioni, dunque, imputano le difficoltà alle sistematiche omissioni da parte delle Regioni di riferimento e perfino del Ministero dell’Ambiente, uniti in un generale atteggiamento di ostruzione e indifferenza rispetto al rischio, segnalato, di accumulare ritardi nei programmi di messa in sicurezza del territorio. “Corre obbligo segnalare le condizioni di estremo disagio in cui si è dovuta portare avanti l’attività di gestione commissariale”, puntualizza Vincenzo Alonzi che era stato nominato il 21 gennaio 2011 per la Regione Veneto e che già a pagina 2 del suo rapporto fa chiarezza sulle responsabilità. “Soprattutto negli ultimi due anni – mette nero su bianco – a causa dalle totale assenza di supporto e direttive ministeriali, snervanti tempi nell’assumere decisioni per la distribuzione delle risorse al centro-nord, procedure di erogazione delle esigue risorse assolutamente inadeguata, interventi legislativi schizofrenici in contrasto con altre leggi dello stato che hanno finito per complicare l’azione commissariale anziché agevolarla e mascherati da inesistenti ragioni di risparmio quando, invece, avevano effetto pratico di dilatarla”. Non  stupisce allora che, a fronte di 44,8 milioni di lavori indicati nell’Accordo di programma del 2010, la gestione commissariale si sia chiusa con 21 milioni di euro disponibili e solo 1,2 effettivamente spesi. Alla data 14 maggio 2014 su 17 interventi programmati 4 risultavano in fase di progettazione, 5 erano aggiudicati e 8 in esecuzione. Ultimati e collaudati: zero.

All’incertezza dei finanziamenti e all’eccesso di burocrazia, si aggiunge l’avarizia nel concedere il “capitale umano” necessario. Emblematico è quanto scrive in proposito il commissario della Sardegna, Efisio Orrù. Quando assume l’incarico, il 16 aprile 2011, ha a disposizione una dotazione organica di 10 tra funzionari e impiegati tecnici e amministrativi. Tutti distaccati da altre amministrazioni e dunque senza oneri fissi per la struttura commissariale. Già nel secondo trimestre 2012 due vengono autorizzati a far rientro alla propria amministrazione originaria. Nel quarto, l’unico ingegnere e altri due impiegati che erano a tempo pieno vengono prestati solo part-ime. A gennaio se ne va anche il ragioniere. “Nella perdita di alcuni dipendenti e nella estrema difficoltà a reperirne di nuovi – scrive il commissario a pagina 10 della sua relazione – la maggiore criticità è dovuta al silenzio del Ministero sulla richiesta di attribuire incarichi correlati all’organizzazione dell’ufficio e alle funzioni svolte (…) incidendo negativamente sulle condizioni generali di operatività della struttura commissariale”.

Dalle relazioni si scopre anche la vulgata degli stipendi d’oro aveva perso da un pezzo la sua ragion d’essere, almeno in teoria. Lo spiega il commissario per la Lombardia, Carlo Maria Marino. Il 30 giugno invia a Roma la relazione per il passaggio di consegne che riepiloga così lo stato dei lavori: 45 opere concluse su 163, solo 78 milioni spesi su 217. Poco dopo illustra le competenze commissariali e spiega che il 23 giugno 2011 il Ministero dell’Ambiente aveva definito tali competenze pari a 150mila euro lordi l’anno. E che i pagamenti dovevano essere “autoliquidati” a valere sull’1% dei fondi stanziati. Ma il 12 gennaio 2012 entrano in vigore nuovi criteri che prevedono 50mila euro di parte fissa e altrettanto di variabile in base al raggiungimento degli obiettivi e al rispetto dei tempi di realizzazione degli interventi, con modalità che sarebbero state indicate da una successiva circolare. “Malgrado una sollecitazione interna da parte dell’Ispettorato del Ministro, nulla è pervenuto alla data odierna”. Poi arriva il decreto del 6 dicembre 2011 che riconosce una retribuzione “comunque non superiore al 25% del trattamento economico percepito dall’ente di appartenenza”. E nel rispetto di queste regole, e nelle more delle mancate comunicazioni, il commissario nel 2014 si autoliquida 60.743 euro per sei mesi.

Se ne va senza sbattere la porta Maurizio Croce, uno dei pochi commissari rientrato dalla finestra. Negli ultimi quattro anni è stato commissario straordinario in Puglia, Sicilia e soggetto attuatore in Calabria. Tanto lavoro per il nipote dell’ex procuratore capo di Messina, ma anche belle soddisfazioni: l’ ultima dichiarazione dei redditi, anno 2014, aveva un imponibile di 255.460 euro. Poi la sfortuna si è abbattuta, improvvisa: Croce era stato da poco prorogato nell’incarico quando il governo ha delegato direttamente le Regioni, facendo saltare i commissari. Da professionista navigato, riesce però a rimanere aggrappato al suo scoglio: a novembre, su indicazione dei Democratici Riformisti di Giuseppe Piccolo, diventa assessore regionale al Territorio e Urbanistica di Crocetta e grazie a quella delega può continuare a occuparsi degli interventi di mitigazione del dissesto che non ha risolto, a 11mila euro al mese.