Piacere quotidiano

Catania, la cucina dei monaci benedettini spiegata in un corso

Le associazioni Cotumè e Officine culturali organizzano all’interno dell’ex monastero, oggi patrimonio dell’umanità Unesco, incontri in cui spiegano agli allievi i piatti di tre secoli fa

Patrimonio mondiale dell’Umanità dal 2002 e adesso pure scuola di cucina. È l’ex monastero dei benedettini di Catania che, dopo aver aperto le porte al dipartimento di Scienze umanistiche dell’università etnea – di cui è sede –, in questi giorni sta scoprendo una vocazione culinaria. È nelle antiche stalle, che conservano ancora la pavimentazione originaria in pietra lavica, che chef isolani spiegano agli appassionati del buon cibo i piatti tipici della tradizione locale. Non quella di oggi, s’intende, ma quella di tre secoli fa. «I monaci catanesi non seguivano la regola di San Benedetto», sorride Loredana Balsamello, fondatrice assieme a Ivano Mistretta dell’associazione Cotumè ed esperta di ricette del Settecento e Ottocento.

«La cucina monacale è stata una scoperta incredibile», racconta Balsamello, trentenne di Calascibetta, in provincia di Enna. Una laurea all’ombra dell’Etna, esperienze di studio a Roma e in Inghilterra e poi la scelta di tornare in Sicilia per promuovere il patrimonio enogastronomico della trinacria. «Ero sempre stata una grande appassionata di cucina, ma in Gran Bretagna è scattato qualcosa – dice – In quel luogo multietnico, in cui è facile confondersi nel mare di culture possibili, il modo che tutti trovavano per sentirsi a casa era la cucina della loro terra». Lei la storia dei piatti siciliani ha scelto di studiarla prima e spiegarla poi, organizzando, su prenotazione, dei corsi di cucina proprio all’interno del monastero dei Benedettini di Catania, un luogo in cui la tradizione culinaria è nata. A precedere ogni corso di Cotumè, una visita guidata al monastero, organizzata dall’associazione Officine culturali. Per coniugare la cultura, di cui i monaci benedettini erano portatori, e il gusto. «Era una cucina moderna, laica e godereccia – spiega Loredana Balsamello – I pranzi erano di almeno quattro portate e potevano arrivare a sei. I religiosi mangiavano almeno un chilo e mezzo di cibo per pasto».

Niente di castigato, nessun timore del peccato di gola: «Nel menù c’erano parecchi timballi, tra i quali quello di maccheroni, e la classica caponata era arricchita con il pesce. E un sacco di zuppe: ne facevano una con il latte di mandorla, un gusto salato che oggi è sconosciuto». A farla da padrone era la frutta secca, ma non mancavano le spezie e le contaminazioni d’oltralpe: «I cuochi avevano viaggiato, erano persone che avevano imparato a cucinare anche altrove». E che proponevano in Sicilia, all’interno di un edificio monastico, una cucina fusion ante litteram. «Dal pollo in fricassea d’ispirazione francese al falsomagro con uova di quaglia, passando per un piatto a base di tartufo, un tripudio barocco che conteneva un po’ di tutto».

E poi i dessert: «I monaci amavano il gelo, soprattutto quello al cioccolato. E ogni giorno dalle neviere dell’Etna venivano portati fino a duecento chili di neve, usati anche per fare la granita. In un documento del 1858 vengono elencati una trentina di dolci diversi presenti nel menù dei benedettini». Per ricostruire la storia delle caldissime cucine del Monastero catanese, oggi tutelato dall’Unesco, Balsamello ha studiato documenti, vecchi libri e contratti. Un lavoro di ricerca filologica che ha messo al servizio del buon cibo siciliano. «Nelle nostre cooking class facciamo anche i piatti dolci: c’è la cubbaita, per esempio, un torrone di origine araba che invece di essere fatto con le mandorle è fatto coi semi di sesamo». Oppure ci sono i «seni di vergine»: «Derivano dalla cassata, il dolce simbolo della Sicilia, la cui ricetta definitiva è stata codificata proprio nell’Ottocento. Sono dolci tondeggianti, a base di ricotta, pasta di mandorle e frutta candita». Ricordano, appunto, la forma del seno di una giovane donna. «Facciamo anche i cannoli come una volta, arrotolando la cialda attorno ai fusti delle canne», prosegue l’ideatrice del progetto. «Ma la parte migliore – conclude – è poter raccontare le mille storie della nostra gastronomia».

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