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Cile: lettera agli amici liguri, dalla fine del mondo

Sono partito per il Cile con il cuore stretto, mentre si sceglievano i candidati per le Regionali liguri, gli amici di S. Torpete e io abbiamo scelto Giorgio Pagano, cliccate sul web e capirete perché. Ma la nostra campagna è già partita, il granello di polvere negli ingranaggi del Pd alla fine diverrà una valanga. Eppure, mi sembrava di disertare sul più bello: ad esempio, c’è ancora da convincere molti partitini della vecchia sinistra, sempre gli ultimi a capire dove tira il vento. Venticinque ore di viaggio da Genova a Valdivia, nella regione de Los Rios, passando da Parigi e Santiago, il jet lag, una maledetta tendinite, dieci ore di lezione in due giorni, come a Trieste ma in castigliano, ed eccomi qui, davanti a un tramonto spettacolare, in una specie di pizzeria cinese che manda Vamos a la playa dei Righeira a manetta, pure qui, un secolo dopo…

Il Cile è bellissimo, benché riportato indietro di mezzo secolo dalla dittatura di Pinochet e poi sconciato dal capitalismo yankee. La minuscola Valdivia, città universitaria più volte distrutta dai terremoti e ricostruita, pare un pezzo di Svizzera incastonato fra la corrente di Humboldt e le foreste verdissime che risalgono la Cordigliera. C’è il buco nell’ozono antartico, che sconsiglia dal prendere il sole, ma non c’è la sanità pubblica, le medicine è meglio portarsele da casa. Ci sono quattro università private però una solo decente, la Austral che mi ospita, frequentata come tutte solo da chi può permetterselo. Niente biblioteche né librerie, perché internet e l’Iva sui libri al 21% sconsigliano di leggere. I docenti sono spesso precari spagnoli, che si vendicano dell’esilio invitando a spese dei padroni i colleghi più radicali del vecchio continente.

Anche la cucina è quel che è, peggio della peruviana, se possibile. Pago quasi ventimila pesos, moneta ridicola come la nostra lira, se mai ritornerà, un po’ di polpo col paté d’olive, una pizza fantasiosa e un’arancia a tocchetti. Però il cameriere, con la sobria eleganza dei poveri, m’impacchetta da portar via il terzo di pizza avanzato, proprio come succede nelle kebaberie della vecchia Genova, altro posto dove non si dimentica il valore reale delle cose. E mentre torno zoppicando al mio albergo, alla confluenza fra tre fiumi, e si leva silenzioso il primo vento dell’autunno australe, decido su due piedi, anzi su uno solo, che un giorno torneremo tutti, io e i miei fratelli di qui, torneremo nella vecchia Europa per liberare il mondo.