Mafie

‘Ndrangheta in Piemonte, confermate condanne per associazione mafiosa

Verdetto della Cassazione. All’origine c’era un’intercettazione dell’indagine “Crimine” registrata in un agrumeto a Rosarno dove il boss Domenico Oppedisano riceveva i rappresentanti delle locali di ‘ndrangheta arrivati da altre parti dell’Italia e del mondo

Anche nel Basso Piemonte c’è la ‘ndrangheta e ora a ribadirlo c’è una sentenza della Suprema Corte. Martedì sera la V sezione della Corte di Cassazione ha respinto i ricorsi dei 17 imputati condannati dalla Corte d’appello di Torino per associazione a delinquere di stampo mafioso. Diventa così definitiva la sentenza del 10 dicembre 2013, con cui veniva ribaltata l’assoluzione degli indagati finiti in carcere nel 2011 con l’operazione “Albachiara”. Per la Dda diretta dal procuratore aggiunto Sandro Ausiello si tratta della seconda sentenza definitiva favorevole nel giro di otto giorni dopo quella sul processo “Minotauro”.

Tutto nasce da un’indagine dei carabinieri del Ros che ha svelato l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta attiva nelle zone tra Asti, Alba, Bosco Marengo, Novi Ligure e Sommariva del Bosco. All’origine c’era un’intercettazione dell’indagine “Crimine” registrata in un agrumeto a Rosarno dove il boss Domenico Oppedisano riceveva i rappresentanti delle locali di ‘ndrangheta arrivati da altre parti dell’Italia e del mondo. Qui il 30 agosto 2009 aveva ricevuto anche Rocco Zangrà e Michele Gariuolo, due compari “piemontesi” che gli chiedevano l’autorizzazione per aprire una nuova locale di ‘ndrangheta ad Alba (Cuneo) e per distaccarsi da quella capeggiata dal capo Rocco Pronestì. L’indagine viene portata avanti dalla Dda di Torino (pm Roberto Sparagna, Monica Abbatecola ed Enrico Arnaldi di Balme) e sfocia negli arresti del 21 giugno 2011.

Vengono dimostrati legami con la “casa madre” in Calabria e con le locali in Liguria, gli incontri e i riti di affiliazione, ma scarseggiano i reati compiuti dal gruppo criminale e per questo il processo diventa complicato. Al termine del rito abbreviato l’8 ottobre 2012 il gup del tribunale di Torino Massimo Scarabello assolve i 17 imputati perché ritiene che il reato principale di cui erano accusati, il 416 bis, non possa essere contestato in quanto manca il metodo mafioso, “lo sfruttamento, per il raggiungimento degli scopi, delle condizioni di assoggettamento e di omertà derivanti dalla forza intimidatrice del vincolo associativo”, scrive nelle motivazioni. L’unico a essere condannato è il boss Pronestì, ma solo per detenzione di armi. Sebbene il “capo locale” avesse riconosciuto di aver fatto parte della ‘ndrangheta e si fosse dissociato, non era bastato a convincere il gup dell’esistenza di un’organizzazione criminale basata nel Basso Piemonte.

Poco più di un anno dopo però la Corte d’appello ribalta la decisione. Secondo i giudici di secondo grado c’erano le prove per ritenere quella locale una struttura autonoma e capace di intimidire. A dimostrarlo era il “dissidio” avvenuto durante una riunione della commissione territoriale del Comune di Alessandria tra uno degli imputati, Giuseppe Caridi, un ex consigliere del Pdl affiliato alla ‘ndrangheta dal 28 febbraio 2010, e il politico dell’Idv Paolo Bellotti. Quest’ultimo criticava la gestione della commissione fatta da Caridi per facilitare l’approvazione di delibere con cui venivano facilitati i lavori di un’impresa edile di Sergio Romeo, altro imputato del processo, interessato alla speculazione edilizia di Valle San Bartolomeo, una frazione di Alessandria.

In quell’occasione Bellotti diede a Caridi del “quaquaraquà” e l’affiliato, di tutta risposta, gli lanciò una sedia. Per i magistrati della Corte d’appello “non pare fuori luogo cogliere in questa vicenda l’esistenza di quella forza intimidatrice che il vincolo associativo produsse sui consociati o quanto meno sui politici di origine calabrese”, quelli che consigliarono a Bellotti di non denunciare l’episodio. Inoltre “la forza di intimidazione si desume dal suo essere stata l’associazione armata”, si legge ancora nelle motivazioni dell’appello. Per utilizzare una similitudine sfruttata dai pm e dai giudici, “Albachiara” è stata una sorta di operazione su un cancro prima che questo diventasse una metastasi.