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Mariupol, due popoli in guerra nella città-simbolo dell’Ucraina

Il fumo nerastro delle ciminiere disegna una striscia permanente e definita nel cielo di Mariupol; solo talvolta, verso sera, quando dal mare di Azov si alza il vento, il nastro di smog si allarga impigliandosi nelle cupole dorate delle chiese ortodosse. Che dal settembre scorso offrono un po’ di sollievo psicologico agli abitanti impauriti dai razzi lanciati dai separatisti filo-russi, posizionati a 20 chilometri di distanza nei pressi di Shirokino. Il 24 gennaio una pioggia di missili ha colpito il sobborgo di Vostochchniy, facendo 30 morti, la maggior parte civili al mercato. I crateri non sono ancora stati riempiti. A futura memoria.

Quale sia il futuro prossimo di Mariupol, città mineraria e siderurgica cruciale per l’economia non solo della regione ma di tutta l’Ucraina, è chiaro solo nella mente insondabile del presidente russo, nume tutelare dei separatisti. Ciò che invece è evidente non solo per Putin ma per tutta la comunità internazionale è la posizione strategica di questa città di mezzo milione di abitanti, sede della più grande acciaieria del paese, l’Azovstal, che ha continuato a produrre anche quando il ponte che la collegava al resto della città fu distrutto nel settembre scorso dai colpi dell’artiglieria separatista. Solo nei giorni successivi la produzione è diminuita in attesa che ne venisse costruito un altro, temporaneo. Ma ora, il nuovo ponte, più stretto, rischia di diventare permanente perché le priorità sono altre. “Dobbiamo prima di tutto pensare a difendere la città da un’eventuale invasione dei terroristi e quindi continuare a migliorare il sistema ingegneristico che finora ci ha permesso di costruire una sofisticata cintura di trincee attorno alla città”, spiega in perfetto inglese Konstantin Batozsky, giovane consigliere del governatore dell’oblast (regione, ndr) Taruta . Se accendere una candela e dimenticare la guerra nello spazio ipnotico della liturgia ortodossa è d’aiuto agli anziani, lo è meno per i giovani che preferiscono “evadere” dentro la rete. Internet, per chi è rimasto – la maggior parte della popolazione – e per chi è arrivato, cioè i profughi di Donetsk e Luhansk, è il modo più veloce di comunicare. Le linee telefoniche saltano spesso ma internet, inspiegabilmente, funziona bene.

Sasha, 23 anni, studente di economia, chatta con il suo migliore amico, arruolato nella guardia nazionale, che ora si trova ad Artemivsk dopo essere sopravvissuto all’assedio di Debaltsevo.
Da un coffee bar sulla riva del fiume, cerca di consolare il suo amico Andrey che insulta Poroshenko per aver dato loro l’ordine di ritirarsi da quello che era un nodo ferroviario strategico e che i separatisti hanno preso dopo l’accordo di Minsk di due settimane fa. “Ora vorrebbero venire verso Mariupol per difenderci ma i loro comandanti li hanno fermati. Gli sto dicendo che è meglio così, almeno noi dobbiamo rispettare la tregua, per mostrare che noi vogliamo davvero la pace. Non è possibile continuare a vivere in questo stato di tensione, anche perché l’economia della città ne ha risentito molto – spiega Sasha, che ha dei parenti filo-russi in un villaggio vicino a Donetsk – e perché dobbiamo cercare in tutti i modi di evitare nuovi morti. Anche se i miei cugini la pensano diversamente su questa maledetta guerra, non voglio che muoiano sotto le bombe. Siamo molto legati, e siamo tutti vittime di un gioco che passa sopra le nostre teste”.
Yulia la sua ragazza invece vorrebbe che i soldati ucraini arrivassero in massa perché ha ancora paura, nonostante da due giorni non si senta più il fragore sommesso dell’artiglieria separatista e non ci siano più state vittime neanche tra i soldati. “Sono convinta che Putin manderà altre truppe, carri armati e razzi perché Mariupol è troppo importante per creare il corridoio di terra tra la Russia, il Donbass e la Crimea”.

La speranza e la paura si accendono e spengono a intermittenza come le luci delle vetrine del centro, al piano terra dei grandi palazzi bianchi, eredità sovietica. “Conquistare Mariupol vorrebbe dire inviare migliaia di soldati, attaccarla dal mare e uccidere migliaia e migliaia di civili. Non penso che Putin se lo possa permettere. Di certo anche la maggior parte di noi civili sarebbe disponibile a difenderla fino alla morte – sottolinea Batozsky – e in questo caso credo che anche l’Europa imporrebbe nuove e più serie sanzioni economiche contro la Russia, come ha spiegato Angela Merkel e Federica Mogherini. Il problema è che lo ‘zar’ è imprevedibile e non abbandonerà il suo progetto di ricostruire l’impero. Potrebbe però accontentarsi di tenere congelato il conflitto per far sì che il nostro paese resti destabilizzato, sotto tutti gli aspetti, non ultimo quello economico, e prima o poi torni a chiedere la protezione russa”. Che per la metà degli abitanti di Mariupol è ancora madrepatria, per l’altra metà matrigna. Per ora le armi tacciono e da due notti tutti abbiamo dormito più tranquilli.

il Fatto Quotidiano, 27 Febbraio 2015