Donne di Fatto

Pubblicità sessiste, il Comune di Bologna vieta l’affissione anche in spazi privati

Lo stop è previsto in una clausola inserita nel Regolamento sulle pubbliche affissioni. "È uno stimolo per i creativi a rinnovarsi" spiega Simona Lembi, presidente del consiglio comunale

Donna avvenente uguale merce da vendere. Basta guardarsi in giro. Quattro corpi femminili supini, disposti a scacchiera, per risaltare i glutei dentro un paio di jeans push-up. Il lato b in costume a Natale. Un cono gelato tra due labbra carnose. Con l’intimo addosso, sguardo ammiccante, in posa suadente, contro al muro o ai piedi di un divano. La cartellonista pubblicitaria che sfrutta l’immagine femminile per attirare un prodotto continua a essere un nodo irrisolto. Anche se qualcosa sta cambiando. Il Comune di Bologna con una delibera del 17 novembre scorso ha bandito le “immagini volgari, violente o sessiste nelle pubblicità affisse in città”. Non solo sugli spazi gestiti direttamente dal Comune. Ma anche su quelli dati in concessione ai privati.

La rivoluzione è contenuta in una clausola inserita nel Regolamento sulle pubbliche affissioni che impone sia al contraente sia all’inserzionista pubblicitario che usa il pannello di accettare il Codice di autodisciplina pubblicitaria (promulgato per la prima volta nel 1966 dallo Iap, Istituto di autodisciplina pubblicitaria, ente privato che disciplina la comunicazione commerciale). “È uno stimolo per i creativi a rinnovarsi – spiega Simona Lembi, presidente del consiglio comunale, da cui è partita l’iniziativa – Non serve un corpo nudo per promuovere un oggetto. La nuova disposizione copre un vuoto normativo”. In caso di violazione, sarà compito del Giurì e del Comitato di controllo dello Iap esprimere un giudizio ed eventualmente richiedere la rimozione della pubblicità. “Nel 99 per cento dei casi le aziende rispettano l’ingiunzione – precisa l’avvocato Carlo Orlandi, presidente del Comitato di controllo Iap ( Istituto Autodisciplina Pubblicitaria, ndr) – Nessuna vuole rovinarsi la reputazione. Violare queste norme significa non rispettare le regole di correttezza professionale”. Continua Lembi: “In questa fase sperimentale puntiamo a dissuadere più che a punire. Contiamo di fissare delle sanzioni pecuniarie fino alla risoluzione del contratto nel prossimo provvedimento”.

Un’altra pietra miliare nella lotta contro la mercificazione della donna è il protocollo di intesa tra Anci e Iap siglato il 6 marzo 2014. A tutte le amministrazioni locali viene chiesto di collaborare affinché gli operatori di pubblicità non incitino ad atti di violenza sulle donne, tutelino la loro dignità e non rappresentino stereotipi di genere. A fare da apripista la città di Milano. Il 28 giugno 2013 Palazzo Marino approva delle linee guida per la valutazione dei messaggi pubblicitari a carico però solo dell’amministrazione comunale. Una quota ridotta rispetto a quelli gestiti da terzi. Nel settembre dello stesso anno organizza un convegno dal titolo “Quando comunicazione fa rima con discriminazione. Verso una comunicazione responsabile”. Presenti anche i rappresentanti dei comuni di Enna, Genova, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Trieste, Venezia.

“Siamo riusciti a far togliere dai mezzi pubblici un réclame di un succo di frutta con una ragazza seminuda – dichiara Francesca Zajczyk, sociologa, delegata per le Pari opportunità per Palazzo Marino – È vero, l’azienda di trasporti pubblici milanese essendo una partecipata del Comune non è tenuta a rispettare il protocollo. Ma in questo caso abbiamo avuto gioco facile perché la donna in mutande non c’entrava niente con il prodotto pubblicizzato. Non sono previste multe per i trasgressori – aggiunge – Vogliamo promuovere un cambiamento culturale. Abbiamo aperto la casella di posta elettronica manifestioffensivi@comune.milano.it per dare la possibilità ai cittadini di denunciare gli abusi”. Ma al momento sono arrivate appena una decina di segnalazioni.

Secondo un’indagine realizzata da Art Directors Club Italiano insieme all’Università Alma Mater di Bologna e Nielsen, le donne disponibili sessualmente nelle campagne pubblicitarie, cioè quelle che attraverso le movenze del corpo esprimono il desiderio di un rapporto sessuale, sono il 12,9 per cento rispetto all’1,7 per cento degli uomini. E in generale la figura femminile è rappresentata più spesso di quella maschile (il 54 per cento delle volte contro il 31,8).

Ci sono altre città che hanno vietato le affissioni hot. Il Comune di Catania nel novembre 2013 ha votato un regolamento per eliminare i manifesti sessisti istituendo un Comitato di vigilanza ad hoc. Finora sono stati oscurati parecchi cartelloni. Come questo: lo slogan “Abbiamo le poppe più famose d’Italia” e un gruppo di donne in minigonna o culotte che si dirigono verso un traghetto che collega Napoli a Catania. Oppure: un seno seminudo in primo e piano e sotto un sacchetto di mozzarelle; “te la diamo gratis”, intesa la macchina del caffè in braccio a una donna sorridente. Anche la Capitale il 30 luglio 2014 ha detto basta ai messaggi lesivi della dignità di genere. Così Ravenna, Rimini, Firenze, Pisa e Genova.

Poi c’è Torino. Laura Onofri, consigliere comunale e referente del Comitato “Se non ora, quando?”: “Torino da anni promuove compagne contro i manifesti sessisti e ha attivato un osservatorio sulle pubblicità offensive”. Ancora: Sesto San Giovanni (Milano), Galatina (Lecce), perfino Arcore (Monza e Brianza), dove il sindaco Rosalba Colombo (centrosinistra) ha voluto ripulire la città dalla cattiva fama del “bunga bunga”.

Novità dal governo? Un comitato paritetico che si è insediato lo scorso 14 luglio all’interno del dipartimento per le Pari opportunità. Obiettivo: monitorare l’attuazione del protocollo d’intesa per la tutela dell’immagine della donna in pubblicità sottoscritto tra il dipartimento e lo Iap il 31 gennaio 2013 e sensibilizzare i Comuni al rispetto dell’accordo tra l’Anci e lo Iap.