Società

Rebibbia: lo spettacolo di un giudice tra i detenuti

Il penale di Rebibbia si riconferma nel ruolo che da lungo tempo lo caratterizzava come carcere “pilota”, luogo di sperimentazioni all’avanguardia. Stavolta si è trattato di una provocazione da far tremare le sbarre: lo spettacolo di un magistrato! E che magistrato: un inquirente, Salvatore Cosentino, Sostituto Procuratore della Repubblica di Locri, zona calda della lotta alla criminalità organizzata.

I detenuti, vivamente invitati a partecipare in massa riempiendo l’intero corridoio delle scuole che fa da spazio teatrale, hanno dimostrato ancora una volta un senso del rispetto molto superiore alle aspettative (soprattutto di chi non conosce la realtà del carcere): applausi fin dal primo ingresso in scena e grande attenzione, senza neanche un mugugno. Loro, che nella stragrande maggioranza si ritengono vittime dei giudici, acerrimi nemici, “peggio delle guardie”.

Due ore di show, tra parti recitate dall’autore, pezzi cantati con una bravissima musicista, video e proiezioni. Un lungo excursus sulla giustizia in rapporto con la letteratura, il teatro, la musica d’autore, la danza e le arti in generale. Dotte citazioni, da Socrate a Pirandello e a Flaiano, rimandi letterari, spezzoni di film a raccontare le diverse rappresentazioni che la magistratura ha avuto nel cinema negli anni 50, con De Filippo nella parte del giudice di Un giorno in pretura, negli anni ’60 con Tognazzi e Gassman, i pretori d’assalto degli anni ’70, il Sordi degli anni ’80, i giudici eroi televisivi degli anni ’90, le comparsate della tv commerciale, le discese in politica.

Pur tra qualche calo di tensione drammaturgica dovuta alla non professionalità dell’attore, la rappresentazione ci ha regalato numerosi e notevoli gli spunti di riflessione, come quello del rapporto tra potere e linguaggio, che spiega l’arzigogolare di certi testi normativi o giurisprudenziali. E la distanza tra il diritto e l’umanità. O l’accostamento tra giudici, preti e attori: in toga, tonaca o costume, con procedure, liturgie o copioni, sono tutti alla ricerca di una qualche forma di verità.

E pare che la più seria sia proprio quella che viene dal palcoscenico, come dimostra lui stesso in questa coraggiosa esibizione in cui, proprio tra coloro che da uffici come il suo vengono condannati, si “denuda” in un’autocritica che a tratti è parsa particolarmente severa.

In una fase di profonda crisi delle istituzioni (tutte, dalla Presidenza della Repubblica in proroga a partiti e sindacati, organi costituzionali e in generale tutte le forme di autorità che tenevano in qualche modo unita la società), la giustizia mostra segni di cedimento sempre più preoccupanti: dalle dimissioni di Gherardo Colombo a quelle del giudice che ha dovuto assolvere Berlusconi, la dea bendata che colpisce a caso ma si riconferma sempre più forte con i deboli e debole con i forti, come nell’ultimo caso Eternit.

Nell’era della spettacolarizzazione il giudice stesso si fa spettacolo, quasi immolandosi mettendo sulla scena tutte le sue umane debolezze. È forse questa, che estrapolo da una canzone dell’autore, l’ultima tendenza della giustizia dei nostri tempi e degli anni che verranno: “è come un bambino, ha bisogno di affetto”.