Cronaca

Moas, chiude missione di salvataggio migranti privata: “Non ci sono più soldi”

Dal 26 agosto la "Migrant offshore aid station" ha salvato 2.500 vite nel Mediterraneo. Con la contemporanea fine di Mare Nostrum, prevista per il 31 ottobre, "c'è il rischio che nessuno vada a salvare le persone in difficoltà", è l'allarme lanciato dal fondatore Christopher Catrambone

Missione terminata: non ci sono più soldi. Dopo 2.500 migranti salvati in due mesi (dal 26 agosto ad oggi) chiude la Migrant offshore aid station (Moas), prima missione di soccorso ai naufraghi dei barconi finanziata da privati. La chiusura avviene in contemporanea con la fine della Mare Nostrum (prevista il 31 ottobre), che di migranti, in un anno, ne ha salvati 150 mila, 409 al giorno. Al loro posto, da novembre comincerà Triton, missione finanziata dall’Unione Europea. A differenza di Moas e Mare Nostrum, Triton non ha mandato di monitorare i naufragi in acque internazionali. “Speriamo che chiunque sostituisca Mare Nostrum renda prioritario il salvataggio di vite umane”, commenta Christopher Catrambone, fondatore del Moas. La speranza, come ammette lo stesso imprenditore, rischia però di rimanere vana: “Abbiamo lavorato benissimo con Mare Nostrum, ma ora che la missione sta volgendo al termine e c’è il rischio concreto che nessuno vada a salvare i migranti in difficoltà”.

Per un mese di operazioni in mare, Moas ha bisogno di una cifra tra i 350 mila e i 400 mila euro, solo per i costi vivi della flotta e per pagare i 16 membri dell’equipaggio. Finora il supporto di ong esterne (di cui i Catambrone nominano solo Medical Bridges) non è sufficiente a coprire la cifra necessaria a prendere il mare ancora una volta. Christopher Catrambone insieme a sua moglie Regina gestisce un’agenzia che assicura chi viaggia in Paesi ad alto rischio, attività che gli ha garantito di poter investire circa un milione di euro in questa missione umanitaria. Non hanno avuto difficoltà a reclutare nel team il maltese Martin Xuereb, militare con alle spalle 26 anni di carriera, e Marco Cauchi, ex coordinatore delle missioni di ricerca della Marina maltese. “Nonostante ciò, i nostri fondi sono limitati e a meno che non si riesca a trovare un fonte di finanziamenti certi, non saremo in grado di operare con la frequenza necessaria”, spiega Catrambone. La crew del Moas spera che la Phoenix I, nave madre di 40 metri dove vengono portati i migranti tratti in salvo, possa riprendere il mare agli inizi del 2015, a patto che altri finanziatori aiutino i Catrambone: “Abbiamo bisogno di persone e organizzazioni che ci aiutino a salvare vite umane”, è l’appello. Per questo sul sito del Moas (www.moas.eu) è possibile fare donazioni all’organizzazione. “Stiamo pensando di lanciare anche una campagna su una piattaforma di crowdfunding”, aggiunge Catrambone.

Tra le attività svolte dall’equipaggio del Moas a seguito di un salvataggio, c’è il monitoraggio completo delle condizioni mediche dei migranti. “Non abbiamo mai visto nessun caso sospetto di ebola“, dice il fondatore. I referti medici dei migranti che attraversano il Canale di Sicilia parlano invece di disidratazione, malaria, mal di mare e ferite causate dal carburante fuorisusciuto dai motori. Nonostante i viaggi, causa meteo, siano sempre più difficili, gli sbarchi non si placano: il 25 ottobre, in Sicilia, sono stati soccorsi altri 800 extracomunitari, provenienti soprattutto dalle coste libiche. Nel Paese si è riacceso il conflitto tra jihadisti ed esercito libico, che il 26 ottobre ha ripreso possesso del 90% di Bengasi, stando alle dichiarazioni del portavoce dell’esercito libico fedele al generale Khalifa Haftar, Mohammed al Hijazi. Il caos in cui è ripiombato il Paese costringe i migranti a fuggire: “Può darsi che quest’inverno non ci saranno rallentamenti nel flusso di migranti”. Oggi ci sono più rifugiati che durante la Seconda Guerra Mondiale”, ricorda Catrambone. Il dato parla da solo: il rischio che i morti in mare si moltiplichino, da novembre si farà molto più concreto.