Calcio

Dino Zoff e quel silenzio da numero uno: “Mio compito? Distruggere colpi di genio”

Da Gascoigne a Chinaglia, da Euro 2000 a Spagna '82, da Berlusconi a Gianni Agnelli, da Sivori ai 'suoi' numeri 12, dalla Fiat al mancato presente nel mondo del calcio: chiacchierata a 360° con l'ex portiere e ct azzurro

Se il signor Zoff parlava poco, una ragione c’era: “A casa mia le regole non erano scritte, ma scolpite. Si viveva di realtà e di concretezza, per scuse puerili e vittimismi non esisteva spazio”. Specchiandosi nel fiume Aniene, l’uomo che superò il guado a tempo debito confessa che avrebbe avuto ancora voglia di remare. Il pudore di sempre. L’amarezza lenita dall’ironia: “Mi chiede se mi sarebbe piaciuto dare una mano al calcio italiano di oggi? Onestamente sì, sa cosa mi ha fregato? L’età. Sono vecchio. Ho 72 anni, conosco le persone che comandano il gioco e loro sanno perfettamente chi sono io”. Circondato da incarichi sfumati: “Sostenevano che una consulenza fosse troppo poco per uno come me e così alla fine non mi è toccato nulla” e autoanalisi sorprendenti: “Ho sempre avuto paura di non avere abbastanza coraggio” il Nazionale che vinse l’Europeo del ’68, incasellò scudetti in batteria e centinaia di presenze in Serie A tra Udine, Mantova, Napoli e Torino, sollevò da capitano la Coppa del Mondo a Madrid nell’82, non ama soffermarsi sul rimpianto: “Quando è finita, è finita. Andarsene a tempo debito è un’arte”.

Zoff salutò in un giorno di estate, vento e riflessi svedesi del 1983: “Fu duretta, sentii che una parte importante, forse la migliore della mia vita, si chiudeva definitivamente. Avevo messo gli scarpini per passione e vocazione. Per provare a diventare una persona migliore”. Dino il monumento. Il mito. Il moloch che al San Paolo chiamavano Nembo Kid. Il supereroe razionale che a diecimila metri ballava con Pertini tra le insidie dello scopone scientifico non ha mai truccato il mazzo delle carte. Quando risponde, pensa sempre a quel che sta per dire. Rallenta il ritmo, prende la rincorsa, ripete cantilenando una preposizione “di, di, di, di” e nelle pieghe di quell’apparente balbettio, nelle pause di riflessione, nel ricordare un episodio, Zoff trova anche la forza di sorridere. Dopo aver immalinconito torme di rivali: “A Luciano Castellini, ex portiere di Torino e Napoli, un amico, lo dicevo sempre: ‘Parli troppo bene di me, non è giusto, devi puntare a togliermi il posto, a farmi fuori’” e aver urlato per una vita intera: “Ma per farmi sentire, non per farmi capire. Allo stadio Sarrià, con la gente che sembra che ti cada addosso, gridare era proprio indispensabile”, Zoff ha scelto di raccontarsi a bassa voce in un libro che sembra un fotogramma di Cartier-Bresson.

In Dura solo un attimo, la gloria (Mondadori Strade Blu, con l’ausilio complice di Anna Boiardi e Marco Mensurati) l’occhio del secolo breve vissuto da Zoff si srotola tra zuppe, corriere, gioie e delusioni. Partite, litigi, addii, ascendenze lontane. Amici. Nemici. Abbracci. Lacrime per maestri in paradiso di nome Bearzot, fratelli volati via come Scirea e volti familiari perché al sangue del tuo sangue, sfuggire non si può. Il padre Mario, soldato smarrito tra l’Africa, l’Albania, la Jugoslavia e i campi di lavoro all’ombra della svastica: “Un uomo libero, un contadino di vedute aperte che aveva fatto tante guerre e cercava pace tra le rondini, il grano e il tinello di casa. Si informava. Era laico. Leggeva con lena Famiglia Cristiana e nei giorni di festa, anche L’Unità. Insieme giocavamo poco, ma non era un’epoca, quella, in cui i genitori si occupavano dei figli”. La sorella Ameris. La madre Anna: “Lo stesso nome di mia moglie”. La nonna Adelaide che venerava Francesco Giuseppe e del sovrano, in una anomala commistione di nostalgie e feticismo asburgico friulano “conservava il ritratto in salotto, con l’imperatore che dall’alto, con i baffi bianchi e l’uniforme in tinta ci guardava in silenzio”.

La sua condizione preferita.
Da calciatore mi trattenevo perché del mondo che mi aveva dato tutto, ero e sono ancora innamorato. Tranciare giudizi non mi piaceva e così, visto che i miei commenti finivano per essere banali, pensai, meglio tacere.

Sapeva farsi rispettare anche senza smanie dichiarazioniste.
Cercavo di dare l’esempio. Credevo nella lealtà. Detestavo le sceneggiate. Le esagerazioni. I ridicoli balletti dopo il gol. Per le furbate altrui, poi, diventavo pazzo.

Pazzo come Luciano Chiarugi, l’ex della Fiorentina che all’estro e alle stranezze doveva anche il soprannome.
L’avevano etichettato così, “Cavallo pazzo”, perché una volta, dopo avermi segnato, fece una corsa folle sotto la curva Ferrovia. Di Chiarugi mi disturbavano le scorrettezze plateali, il cadere in area di rigore, i tentativi di ingannare l’arbitro. Oggi fanno tutti come lui. E a fine gara, nel terzo tempo, ai suoi eredi avrei faticato a stringere la mano.

Davvero?
Ti stringo la mano se vinci perché hai dimostrato di essere migliore. Ma se mi rubi un rigore che mano devo darti? Al limite ti do un cazzotto.

Di gente irritabile e teatrale ne ha conosciuta tanta…
Pesaola era fantastico. Urlava in finto castigliano per insultare gli avversari, ma in realtà non c’era uno che non lo capisse. Oggi il calcio è cambiato, ci sono telecamere ovunque, tribunali mediatici, ossessione generalizzata. Non puoi neanche più permetterti di tirare giù una Madonna in santa pace che subito arriva il plotone di esecuzione.

Lei qualche Madonna la tirava?
Qualche volta sì. Purtroppo capitava anche a me. Siamo esseri umani.

Di umanità varia si nutriva anche Sivori.
Omar era un mostro di simpatia. Uno che sapeva arrabbiarsi e giocare di umorismo come nessun altro. Si considerava il migliore. Quando incontrava un collega in vena di commemorazioni indebite, lo infilzava: “Omar, ti ricordi di quella partita che giocammo insieme?”. E lui, perfido: “Io giocavo, tu tutt’al più eri in campo”. Era un artista, Sivori. E io gli artisti li ammiravo. Erano zingari felici, creavano qualcosa. Per uno come me che non poteva inventar nulla e che aveva il preciso compito di distruggere le invenzioni, l’attrazione era irresistibile.

A volte gli artisti si perdevano.
E vedere l’autodistruzione del talento era uno strazio. Mi capitò alla Lazio con Gascoigne. A Paul volevo veramente bene. Per i suoi calciatori l’allenatore è quasi più di un padre e Gascoigne, di qualcosa o di qualcuno, sembrava veramente orfano.

Episodi?
Si presentava spesso ubriaco. Soffriva di cicliche tristezze. Si pentiva: “Io vincio niente, io no buono” e poi ricominciava. Lasciava il ritiro di sabato sera all’improvviso e poi spuntava a mezzogiorno di domenica, al ristorante in cui andavamo con la squadra: “Mister, ho saputo che mi ha convocato, eccomi qui, non ho fatto in tempo a vestirmi”. Era nudo. Senza mutande. Gascoigne era anche questo. Una volta abbandonò l’allenamento e poi, dopo essersi liberato a pugni e calci da chi voleva calmarlo, si sfogò con le nostre auto sistemate nel parcheggio. Mi feci avanti per calmarlo e Paul, un’anima fragile, mi abbracciò piangendo. So che sta male, mi dispiace molto.

Con un altro eccentrico laziale, Giorgio Chinaglia, divise l’esperienza del Mondiale 1974 in Germania.
Quello del Vaffa in mondovisione di Giorgio a Ferruccio Valcareggi. Il clima in squadra non era buono. Italo Allodi, naso fino, ci convocò in una sede terza per una seduta psicanalitica di gruppo: “Ditevi in faccia tutto quello che pensate”. Antonio Iuliano non si fece pregare: “Rivera non può giocare, mezza squadra non lo vuole”. In quell’atmosfera elettrica e divisa, non era neanche strano che accadesse quel che poi accadde. Con Chinaglia avevo fatto il militare, lo conoscevo bene. Un pazzo scatenato, un condottiero, un trascinatore straordinario e nient’affatto stupido che si dilettava con pistole, immaturità, gol ed esagerazioni. Quella sera, mentre in Italia montava una polemica politica sul suo gesto con annesse interrogazioni parlamentari, lo ritrovammo ubriaco nel giardino dell’hotel. Dormiva sotto un albero.

In Germania, dopo 1.143 minuti di imbattibilità, le fece gol un carneade di Haiti.
Si chiamava Sanon. E mi fece male. Arrivò ciondolando ai limiti dell’area e mi sorprese. Venivo da un biennio magico, Newsweek mi aveva dedicato persino la copertina.

“The world’s best”. Senza necessità di traduzione.
Di fronte a Sanon non ero stato il migliore. Non ero stato attento. Un portiere non può permettersi distrazioni. Mio padre me lo diceva sempre: “Se fai il farmacista, hai il diritto di non aspettarti che l’avversario tiri. Se fai il portiere, questo diritto viene a mancare per costituzione”.

Tra i diritti non contemplati dei numeri 12 che la scortavano c’era il potersela giocare alla pari con lei. Piloni, Alessandrelli, Bodini, Ivano Bordon. Tutti secondi. Gregari per l’eternità.
A me piacevano tutti. Ottimi atleti, bravissime persone. Hanno avuto la sfortuna che colse Gimondi. Felice era bravissimo, ma si trovò davanti Merckx. Con poca umiltà e forse con presunzione, nel mio campo d’azione mi sono sempre sentito unico. Mai umile, ma sicuramente autocritico. Anche l’autocritica in fondo è un sintomo di arroganza. Presuppone tigna, ricerca di miglioramento, voglia di essere il più bravo, di spostare con l’applicazione i confini del tuo talento.

Mario Soldati la definiva “cavaliere dell’800”.
Ma io mi sentivo artigiano o se preferisce operaio specializzato. Anzi, specializzatissimo.

Di veri operai, nel periodo Juve, le capitava di vederne molti.
Scindere la Fiat dalla squadra, anche volendo, era impossibile. Torino ospitava decine di migliaia di tute blu, fabbriche, capannoni legati all’indotto. Ma noi calciatori vivevamo chiusi nel nostro mondo. Avevamo le nostre idee politiche, ma non ne parlavamo mai. L’atleta di allora, salvo rare eccezioni alla Sollier, nuotava in una bolla di vetro. Non perché fosse necessariamente coglione o menefreghista, ma perché aprire un altro fronte oltre a quello emotivamente dispendioso del pallone, non pareva vantaggioso per i nervi di nessuno. In seguito ho ricevuto tante offerte di candidatura, ma schierarmi per un partito non mi ha mai convinto. Amo vedere le cose da più prospettive e credo in una sola politica. Quella dei piccoli gesti individuali che sommati contribuiscono quotidianamente alla dignità di un popolo. La politica del fare le cose come Dio comanda.

Una delle grandi passioni dell’Avvocato Agnelli, un signore che la politica la conobbe da vicino, era proprio il calcio.
Sapeva tutto, ne parlava con cognizione. E ogni tanto mi interrogava illudendosi che avessi chissà quali competenze internazionali per il solo fatto di aver giocato in Nazionale. Era di una distaccata eleganza, non urlava mai e tendeva a usare costantemente lo stesso tono di voce. Era imperturbabile. Aveva il dono dell’impassibilità. Per questo quando al tiggì dissero che in preda all’ebbrezza da vittoria, durante i festeggiamenti per l’inatteso scudetto del ’73, avesse tamponato un’altra auto non ci credetti un solo istante. A differenza dei molti manager atterrati nel pianeta calcio e totalmente trasfigurati dalla passione, Agnelli custodiva un suo ironico contegno.

Ironico?
Sapeva dosare senso del comando e sagacia. Una volta, passeggiando in ritiro con lui e con Oscar Damiani, appena sbarcato a Torino, l’Avvocato si rivolse al nuovo arrivo: “Quanti anni hai?”. Oscar rispose serenamente: “Ventisei, presidente”. E Agnelli, con il suo timbro soave: “L’età giusta per fare ottime cose. O per avventurarsi in spaventose puttanate”.

L’Avvocato telefonava anche a lei?
Ai tempi in cui allenavo, mi chiamava ogni mattina. Una volta mi beccò a dormire. Erano le otto. Le persiane erano chiuse e lui voleva sapere che tempo facesse a Torino. Cominciai a divagare penosamente: “Sereno, bello, discreto. Aspetti, aspetti, forse c’è qualche nuvola. Variabile, avvocato. Variabile”. Non credo di averlo persuaso.

Nel Gennaio 1990, dopo quasi vent’anni torinesi, finì anche la sua storia juventina.
Fu proprio l’Avvocato a comunicarmelo. Ci rimasi malissimo. Venni convocato a casa sua. Era la prima volta che ci andavo e rimase anche l’unica. Parlammo in generale della squadra e poi arrivò al punto: “Vorremmo rinnovare alcune cose, caro Zoff”. Mi stava licenziando. Scendendo dalla collina mi resi conto di essere arrabbiato. Forse peggio. Si chiudeva un’epoca e non si chiudeva nel modo migliore. In qualche modo, ma lo capii soltanto qualche tempo dopo, era arrivata un’era nuova. Quella della confezione, dell’apparenza, della sostanza sacrificata all’estetica. Allo spot. Al vuoto pneumatico.

Arrivò il presunto calcio Champagne di Maifredi, ma lei nei pochi mesi ancora a disposizione, si tolse la soddisfazione di vincere Coppa Italia e coppa Uefa.
Feci quel che dovevo fare, senza cedere alla tentazione di produrmi in qualche inchino in più o qualche intervista intrisa di piaggeria. Se nasci tondo non muori quadro. Non puoi decidere di snaturarti. Di essere altro da quel che sei.

Prima del dolore per lo strappo con la Juventus, mesi prima, arrivò la ferita profonda della morte di Scirea. Il suo amico più caro. Il suo vice.
Era così puro, educato e sincero che all’inizio pensavo ci fosse sotto il trucco. Invece Gaetano era proprio così. Sereno, coraggioso, buono. Mai vendicativo. Mai lamentoso. Mai espulso nonostante pedate vigliacche e provocazioni. La notte del trionfo di Madrid, nel luglio 1982, la passammo nella nostra stanza. Una cena parca, una bottiglia di vino, il silenzio. Una scelta che ci somigliava.

Zeman le somiglia?
Non direi. Nel periodo comune alla Lazio non eravamo amiconi, questo è pacifico, ma pur facendo le cose abbastanza bene, Zeman ha un difetto. Crede di non sbagliare mai. Io covo qualche dubbio in più. E credo soprattutto nella divisione dei ruoli.

Tanti dubbi ci sono rimasti negli occhi dopo il pessimo Mondiale brasiliano.
Quando le cose vanno malissimo come in quest’occasione, servirebbe una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità collettiva che non distingua tra colpevoli e innocenti. Serve il plurale. Non più l’io, ma il noi.

De Rossi e Buffon si sono tirati fuori. Nella loro reazione qualcuno ha scorto una dura critica a Balotelli.
Così facendo, gli si è dato il pretesto per recitare da vittima. Per dire sciocchezze. Quando lo senti esclamare: “I miei fratelli africani non mi avrebbero mai trattato così” intuisci che Balotelli non ha capito nulla. Ma la reazione dei suoi compagni non lo ha aiutato a evolvere, a fare un passo in più, a capire che al pari degli altri, aveva giocato un pessimo torneo anche lui.

Certe competizioni segnano. Ricorda l’Europeo del 2000?
Perdemmo il trofeo per venti maledetti secondi. Andò tutto a puttane in un istante. Un rinvio di Barthez, una sponda, il gol di Wiltord. La squadra mentalmente si sfaldò e da trionfatori in pectore, come avviene nel pallone, finimmo sul banco degli imputati.

Berlusconi si lasciò andare a considerazioni non gentili.
Disse che ero stato indegno e mi ero comportato come l’ultimo dei dilettanti. Volli ascoltare e verificare quel che aveva detto, poi, trascorsa una notte in bianco a riflettere sulla mia dignità, invece di reagire con una piazzata, decisi di dimettermi. Scelse l’istinto anche se cosa sia l’istinto, se derivi dal sapere o meno, ancora non l’ho capito.

“Non posso prendere lezioni di dignità dal signor Berlusconi” disse. Le sue dimissioni colpirono l’opinione pubblica.
Perché sono rare e perché le dimissioni, in Italia, rappresentano un gesto rivoluzionario. Non mi sono pentito. Non mi pento mai. Se in un certo momento hai preso una decisione, significa che fare altrimenti ti risultava insopportabile.

Qualche giorno fa, nel programma “La Zanzara”, un finto Zoff ha chiamato Berlusconi per ritornare ad allora.
E lui ha giurato che le sue considerazioni fossero esclusivamente calcistiche. Ma non ci credo. Sono sicuro che si fosse accorto dello scherzo. Sono certo che sapesse che al telefono non c’era il vero Dino Zoff. (Guarda il pacchetto sul tavolo, ne accende una, chiosa: “Sono un debole, di solito la mattina non fumo”).

Se lei avesse previsto dati, cause e pretesto, come il suo amato Guccini, dove sarebbe adesso?
E chi lo sa? Di persone straordinarie, dai pensieri profondi e malinconici come Guccini e il suo omonimo De Gregori, ne ho conosciute tante. Ma il destino non è una canzone. Non puoi guidarlo. Solo indirizzarlo e vedere se tra le pagine chiare e quelle scure c’è ancora un po’ di luce. Papà me lo diceva sempre: “Se sei bravo, continui, altrimenti ti scegli un lavoro vero”.

Lei continuò, smise i panni da meccanico e si trasformò in un capitolo di storia. In “Dura solo un attimo, la gloria” però scrive che la sua partita l’ha giocata e infine persa. Ne è sicuro?
In effetti non lo so. Se sono qui a raccontarla, forse proprio del tutto non l’ho persa.

da Il Fatto Quotidiano del 5 ottobre 2014