Cronaca

Salento, la Sacra Corona Unita cambia pelle: ora il vero business è il turismo

Non sollo droga ed estorsioni, ma anche e soprattutto gestione dei parcheggi privati, servizi di guardiania e security per lidi, discoteche e bar: così la quarta mafia ha messo le mani sull'economia più fiorente del Sud Italia. Lo rivelano le inchieste della procura di Lecce. E sullo sfondo c'è l'ombra della camorra

Quando cammina tra gli ombrelloni, sotto il sole cocente, ha passo sicuro e ripete quel che deve dire: “Cocco fresco, cocco bello!”. Ha un chiarissimo accento campano e quando gli chiedi che ci fa su quest’altra sponda, lui, il venditore ambulante, risponde con nonchalance: “Questa zona è nostra, l’abbiamo presa noi”. Melendugno, Lecce. Agosto 2014. E’ una frase che potrebbe raccontare molto di quanto accade sulle spiagge italiane più ambite degli ultimi anni, quelle del Salento. Dalle spie di appetiti camorristici, tutti ancora da esplorare, ai tentacoli della mala locale, già accertati e in parte spezzati: dei soldi i clan seguono l’odore, che in estate, da ormai un po’ di tempo, conduce dritti nel Tacco d’Italia. Lo conferma il tris di operazioni che dall’inizio dell’anno la Procura di Lecce ha portato a maturazione. Lo ribadiscono le intimidazioni ai danni di gestori di lidi e locali da ballo lungo la costa: proiettili in busta e roghi nella notte. L’allerta ha calamitato nel Salento, lo scorso febbraio, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e ha indotto la Prefettura a stilare appositi protocolli. La lotta è su più fronti: oltre alla strada giudiziaria, si cercano sponde tra gli amministratori e imprenditori. Non sempre si trovano. Anzi, l’atto d’accusa lanciato a più riprese da Cataldo Motta, timoniere della Dda leccese, è un macigno: “Ci sono vittime che anziché denunciare chiedono addirittura protezione alla criminalità. E’ la cultura dell’omertà”.

Uno schiaffo per la terra che, tranne in alcuni casi, ha saputo isolare da subito le devianze, non concedendo alla mafia il terreno del consenso sociale. Da una Sacra Corona Unita tutta bombe e pistolettate alla ‘Scu spa‘ il passo è stato breve. Conserva i traffici di droga, certo; ricicla denaro sporco, ovvio; ma ha fiutato l’affare del presente e del futuro della Puglia meridionale: il turismo. Almeno nell’ultimo triennio, ha provato a spremerlo ‘offrendo’ suoi servizi attraverso società dal volto in apparenza pulito. E’ così che ha conquistato il quasi monopolio della gestione dei parcheggi privati in località rivierasche gettonate e, soprattutto, si è accaparrata i lauti guadagni della security di stabilimenti, discoteche, bar. A Gallipoli, ha obbligato un’agenzia di guardiania a farsi da parte e l’ha sostituita con le proprie. Nessuno degli imprenditori ha detto no; tutti si sono adeguati in maniera tranquilla e indolore alle indicazioni provenienti dal clan Padovano.

Nel Capo di Leuca, ha taglieggiato gli operatori balneari. E questi, paradossalmente, hanno in parte risposto pagando il pizzo preventivamente, perché “da stasera possiamo stare tranquilli”, come confida uno di loro ad un amico. E’ il particolare più difficile da digerire quello che emerge dal verbale delle intercettazioni di “Tam Tam”, la prima controffensiva in questo settore, quella che il 18 febbraio ha portato dietro le sbarre quindici uomini. Non c’è stato un esposto a dare impulso alle inchieste della Procura. Sono tutte e solo figlie di indagini di mafia già in piedi e capaci di captare il nuovo corso, assolutamente inedito, della Scu. L’unico a decidere di denunciare è stato Gianluca De Giorgi, collaboratore locale della Az Securteam di Napoli, colui che operava in maniera quasi totalitaria nel settore della sicurezza dei locali di intrattenimento a Gallipoli, costretto poi a fare un passo indietro dopo una rapina ad una discoteca da lui vigilata, i colpi di fucile contro l’abitazione della madre, i furti in casa e l’incendio del suo box auto.

Per il resto, ha regnato il silenzio. Ed è questo uno dei due pilastri che ha consentito alla quarta mafia di fare il salto di qualità. Emerge senza equivoci anche dall’ordinanza con cui lo scorso 17 luglio il gip Giovanni Gallo, su richiesta del pm Antonio De Donno, ha disposto l’arresto di altre quindici persone, nell’ambito dell’operazione del Ros denominata “Baia Verde”. Scrive il magistrato: “Proprio il ‘silenzioso e meccanico’ adeguamento degli imprenditori balneari alla (neanche tanto implicita) indicazione proveniente dai capi del clan Padovano costituisce l’elemento più preoccupante, in quanto chiarisce che, come accade nelle vicende tipicamente mafiose, l’intimidazione si estrinseca in un sentimento diffuso e avvertibile nella popolazione che, consapevole delle violenze o minacce perpetrate nel passato, vive in uno stato di assoggettamento che rende inutili gli atti di violenza. […] Si tratta di un modo di operare che conferma un mutamento delle modalità operative della criminalità salentina, la quale non risulta essere più dedita solo al traffico di sostanze stupefacenti e alle estorsioni, ma è capace di inserirsi nell’attività imprenditoriale e spazzare via la concorrenza, non disdegnando, per raggiungere i propri obiettivi, di fare pressioni sulle amministrazioni pubbliche, come dimostrano in maniera eclatante le intimidazioni subite dal sindaco di Gallipoli”.

E’ questo novello core business, la capacità della Scu di mimetizzarsi nel mondo economico e di trarne linfa senza incontrare ostacoli ciò che più incupisce gli inquirenti. La loro lente ha scrutato anche dell’altro: la pax mafiosa aiuta gli affari dei clan, che hanno smesso di farsi la guerra che bagnò di sangue gli anni Novanta per intrecciare una forte collaborazione. E’ la seconda colonna portante alla base della holding criminale. I grani del rosario, il simbolo della Sacra Corona Unita, si stringono a corte. Non è un semplice evitare di pestarsi i piedi a vicenda. E’, anzi, il mutuo soccorso nel rincorrere insieme il flusso di soldi che genera l’industria turistica, che per quest’anno premia di nuovo la Puglia come regina delle vacanze italiane. “Tam Tam”, che ha svelato il sistema estorsivo imposto ai titolari di stabilimenti nel basso Ionio, ha confermato l’esistenza di un patto di ferro tra i Montedoro, operanti nel Sud Salento, e il clan Vernel, i cui presunti referenti sono i fratelli Antonio, Andrea e Gregorio Leo, attivi sul versante adriatico, tra Calimera, Vernole e Melendugno.

Anche in quest’altra zona, i proprietari dei lidi erano costretti a versare il 25 per cento dei ricavi alla mala e concederle in esclusiva la gestione dei parcheggi nelle zone limitrofe, i servizi di vigilanza e di guardiania. E’ ciò che hanno appurato le indagini dirette dal pm Guglielmo Cataldi nell’ambito dell’operazione “Network”: il 26 febbraio scorso, nei guai sono finite 43 persone. Sono stati tre collaboratori di giustizia, tra cui Alessandro Verardi, esponente di vertice dei Vernel, a rivelare l’architettura di ulteriori rapporti: con Salvatore Rizzo, capo storico della Scu, per i traffici di droga da e per la Spagna; con i gruppi di Roberto Nisi e Pasquale Briganti nel capoluogo e con quello di Bruno De Matteis a Merine. “Baia Verde”, invece, ha ribadito la sussistenza dell’asse storicamente forte tra il sodalizio gallipolino e i Tornese di Monteroni. Dopo l’omicidio di suo padre Salvatore su ordine del fratello Pompeo Rosario, il 25enne Angelo Padovano ha preso in mano le redini degli affari grigi nella “città bella”.

E’ l’accusa per cui è stato arrestato a luglio assieme a Roberto Parlangeli, compagno della sorella e legato, appunto, ai Tornese. E’ questo il contesto in cui probabilmente vanno calate anche recenti intimidazioni eccellenti: la busta con tre proiettili ritrovata davanti al lido del presidente della Camera di Commercio di Lecce, Alfredo Prete, e le pallottole recapitate al responsabile del Sindacato italiano locali da ballo, Maurizio Pasca, che ha puntato il dito contro “i ritrovi non autorizzati, eventi molto appetibili per la criminalità”. Di certo c’è che ha avuto finora una spiccata impronta autarchica questo business, orchestrato dalla Scu e a danno dei salentini. Non si esclude che possa far gola anche ad altri. Il riserbo è totale. Ma qualche “cocco bello” sospettato di essere la punta di un nuovo iceberg inizia ad essere notato, come accadde già nel 2010 sulla riviera romagnola e poi su quella veneta.