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Cambogia, ergastolo per due ex leader dei Khmer rossi per crimini contro l’umanità

Fine pena mai per l’ideologo Nuon Chea e il presidente Khieu Samphan. Una sentenza arrivata dopo molti anni dal tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh, e che porta un’attesa giustizia - per quanto tardiva e simbolica - agli occhi dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime

Colpevoli di crimini contro l’umanità, e per questo condannati all’ergastolo: è il verdetto emesso contro i due più alti ex Khmer rossi cambogiani ancora in vita, l’ideologo Nuon Chea e il presidente Khieu Samphan.

Una sentenza arrivata dopo molti anni dal tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh, e che porta un’attesa giustizia – per quanto tardiva e simbolica – agli occhi dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime. I due imputati, in carcere dal 2007, sono stati riconosciuti colpevoli per i crimini relativi all’evacuazione forzata della capitale e di altri centri urbani dopo l’aprile del 1975, quando il movimento ribelle maoista guidato da Pol Pot prese il potere attuando una disastrosa utopia agraria ed egualitaria che causò 1,7 milioni di morti, un quarto della popolazione cambogiana, prima della liberazione da parte dell’esercito vietnamita nel 1979.

Il “fratello numero due” Nuon Chea (88 anni) è stato condannato per aver pianificato e ordinato “crimini contro l’umanità, sterminio e atti disumani”; il capo di Stato della “Kampuchea democratica” Khieu Samphan (83) ha ricevuto la stessa pena per aver preso parte all’attuazione di tali crimini, sebbene i giudici abbiano stabilito la sua estraneità agli ordini. I due imputati, presenti in aula alla lettura del verdetto, hanno già annunciato di voler fare ricorso, chiedendo inoltre la rimozione dei giudici perché “non imparziali”.

“C’è finalmente un senso di giustizia. È un giorno storico, l’ultimo capitolo del passato oscuro della Cambogia”, spiega all’Ansa Ou Virak, presidente del “Cambodian Center for Human Rights”, e che nel regime dei Khmer rossi ha visto morire diversi parenti tra cui il padre, un nonno e uno zio. I due condannati non avevano mai ammesso la loro colpevolezza, anche se nei tre anni di processo non sono mancati momenti in cui hanno espresso il loro rimorso e la loro responsabilità morale. Nuon Chea, in particolare, nonostante le precarie condizioni di salute, non ha mai perso il tradizionale cipiglio, mentre Khieu Samphan ha sempre ribadito di non aver goduto di poteri significativi durante il regime, nonostante fosse il “fratello numero quattro”.

Dopo oltre 200 milioni di dollari spesi ed enormi pressioni politiche, il tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh ha concluso così la prima parte di un processo (il “caso 002/01) che è stato diviso in due per giungere almeno a un verdetto. Il secondo procedimento (002/02), la cui prima udienza si è tenuta la settimana scorsa, comprende le accuse di genocidio, tecnicamente riferite “solo” all’eliminazione della minoranza vietnamita e della comunità musulmana Cham; serviranno almeno altri due anni per arrivare a una sentenza.

I procuratori stanno indagando anche su altri potenziali imputati sospettati di crimini simili, nell’ambito dei procedimenti 003 e 004. È forte il rischio però che tali indagati – ex alti funzionari dell’attuale governo cambogiano – non vengano mai rinviati a giudizio, data la presa di posizione dell’autoritario presidente Hun Sen (lui stesso un ex Khmer rosso di medio grado) contro nuovi processi.

Prima del 7 agosto, l’unico verdetto raggiunto dal tribunale era l’ergastolo contro il “compagno Duch” responsabile del carcere-lager di Tuol Sleng. Il leader dei Khmer rossi, Pol Pot, è morto nel 1998 senza essere mai stato portato alla sbarra.