Mondo

Iraq, possibile attacco Usa: ecco perché Obama vuole lanciare l’offensiva

A due anni e mezzo dal ritiro delle truppe americane, il presidente Usa, a causa della crisi a Baghdad, deve considerare il ritorno dei propri militari in assetto di combattimento. Il Pentagono pensa all'invio di droni radiocomandati o di normali aerei da guerra

Tutte le opzioni, anche quella militare, sono sul terreno”. Lo dice Barack Obama e l’annuncio riporta gli Stati Uniti indietro di un decennio: agli anni della war on terror di George W. Bush e alla difficile e costosa, in termini economici e di vite umane, occupazione militare dell’Iraq. Il fatto è che l’offensiva dei miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) ha preso di sorpresa anche l’amministrazione americana. Nelle ultime ore, a causa dell’avanzata jihadista, decine di americani – civili e contractor – sono stati evacuati dalla base militare irachena di Balad, uno dei maggiori centri di addestramento del Paese, 80 chilometri a nord di Baghdad. E mentre gli Stati Uniti valutano l’evacuazione della propria ambasciata nella capitale irachena, il Wall Street Journal rivela che nei mesi scorsi Washington e Baghdad hanno usato i droni per monitorare l’attività di al Qaeda.

E’ un Obama apparentemente risoluto quello che ieri nello Studio Ovale della Casa Bianca ha risposto alle domande dei giornalisti sull’Iraq. “Gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse che i jihadisti non assumano un ruolo permanente in Iraq e Siria”, ha detto. Fonti dell’amministrazione descrivono però uno scenario ben più difficile e incerto. Obama, nei mesi scorsi, ha fatto di tutto per non essere coinvolto negli scontri settari tra sciiti, sunniti e curdi. Le stesse linee guida dell’amministrazione, esposte dal presidente alcune settimane fa nel corso di un discorso sulla politica estera a West Point, puntano a un’“America forte”, ma che eviti diretti coinvolgimenti nelle crisi internazionali. Il precipitare della crisi irachena rende necessarie scelte ben più radicali.

A due anni e mezzo dal ritiro delle truppe americane, Obama deve infatti considerare il ritorno dei propri militari in assetto di combattimento sul suolo iracheno. Il Pentagono sta valutando la possibilità di bombardamenti aerei contro postazioni dell’Isis, che potrebbero essere condotti sia attraverso droni radiocomandati sia mediante normali aerei da guerra. Questi airstrikes contro postazioni jihadiste a nord e ovest di Baghdad sono richiesti da mesi dal governo di Nouri al-Maliki, ma l’amministrazione avrebbe sinora preferito non aderire alla richiesta, preferendo rifornire le forze governative di missili, jet da combattimento e tanks.

Nelle ultime ore un articolo del Wall Street Journal, basato su fonti anonime del governo di Washington, ha rivelato che sin dallo scorso anno gli Stati Uniti stanno segretamente impiegando un ridotto numero di droni in Iraq per raccogliere informazioni di intelligence sugli insorti. I droni sarebbero stati impiegati in operazioni di raccolta dati, e non in vere e proprie azioni militari. Sinora l’amministrazione Usa aveva mantenuto, nei confronti della crisi irachena, un atteggiamento tendenzialmente distaccato. Da un lato pesa ovviamente il ricordo dei costi economici e umani dell’occupazione dell’Iraq – con 4400 soldati Usa morti nel conflitto. Dall’altro c’è il problema più generale della situazione geopolitica nella regione.

Negli ultimi mesi l’Iran ha inviato le sue forze paramilitari dei Pasdaran a dare man forte al governo sciita di al-Maliki. Una decisa presa di posizione militare di Washington porrebbe Obama nell’insolita situazione di combattere a fianco di Teheran nella difesa del governo sciita di Baghdad. Un governo, e questa è l’ultima e più forte ragione delle riserve americane, che ha fatto di tutto negli ultimi tempi per scontentare Washington. La campagna di persecuzione portata avanti da Nouri al-Maliki nei confronti dei sunniti iracheni avrebbe infatti, a giudizio dell’amministrazione Obama, rinfocolato le tensioni settarie e precipitato la crisi. “Al-Maliki non è ovviamente un buon primo ministro”, ha detto Bob Corker, un senatore repubblicano tra i più impegnati nella definizione della politica estera Usa.

Gli eventi degli ultimi giorni mettono però da parte le riserve nei confronti di al-Maliki e l’intenzione americana, nemmeno troppo nascosta, di rimpiazzarlo. Proprio i repubblicani insistono in queste ore in una più massiccia presenza militare americana nel conflitto. “Obama sta dormendo”, ha commentato lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner. “Questa amministrazione non ha una strategia”, gli ha fatto eco il compagno di partito, John McCain. I democratici sembrano più prudenti ma in gran parte del mondo politico di Washington si fa strada ormai l’idea che un limitato intervento militare sia ormai necessario. “Questa potrebbe essere il solo modo per permettere all’esercito di Baghdad di riorganizzarsi e fronteggiare l’avanzata di al-Qaeda”, ha spiegato il senatore della West Virginia Joe Manchin III.