Società

Mazzarrona, il ritorno: lo stesso orizzonte di fabbriche

Sono tornata a Mazzarrona, appena qualche settimana fa. Sapete quelle cose del tipo: adesso voglio chiudere il cerchio. Senza neanche realizzare bene quel tale cerchio quale diavolo di steccato vorrebbe chiudere o meglio abbattere. Lo steccato della mia giovinezza e mi piace dirla così: giovinezza. Ritrovo intatte le case gialle e i falansteri di Buzzati, li ho riveduti simili, topaie in serie, promiscuità e tanfo di umori indicibili che promanano dalle rampe, promontori secchi e duri su monti di lamiera, tunnel fangosi confusi tra le steppe, sentieri di borragine o spuntoni di cardi, la luce degli iris, il loro azzurro innocente, il mare, la ferrovia. Guardavo verso i calanchi, l’abisso e la linea sulle fabbriche – l’orizzonte – dove finivano i soliti fumi delle torrette. Era la stessa terribile scure da cui osservavamo la vita svolgersi stoltamente, la immaginavamo così parziale e persino azzimata ingiustamente, io e Romina.

Romina: non so dove sia, viva o morta, ma credo sia viva, era capace di sopravvivere sempre. Un giorno – le dissi stupita, ammirata anzi – un giorno sarai viva più di me, tu sopravviverai più di me e degli altri, perché te lo hanno insegnato qui. Qui? Replicava scettica, nella sua durezza da posa: qui? In questa merda, mi hanno insegnato qualcosa? Eppure ne arrossiva, fumando la Marlboro, scoprivo le sue guance, nella pelle spessa e olivastra, arrossire gentilmente. Arrossire era una forma di gentilezza allora, l’unica rivelata in quel tempo, in quel luogo di castigo che mi sembrava Mazzarrona o la periferia. C’era un catorcio, con una vecchia ape, prossimi ai casermoni, oltrepassate le colline di mondezza, le lamiere, lì incontravo il mio amore, si chiamava Massimo, si bucava. Vi ho già raccontato, e ne racconterò meglio nel romanzo che dovrebbe uscire a breve. Massimo era sempre fuori, arrivava tardi, dimenticava qualcosa, me, il colore dei miei occhi. Cantava le canzoni di Morrissey. Fragile, le piste sul braccio, le maniche di camicia fermate al polso anche d’estate, bianco, un cencio, anche d’estate. Non era la giovinezza, erano deserti. Allora, lungo i sentieri di piante selvatiche, nelle campagne di Mazzarrona, continuavo a insistere sulla possibilità di essere liberi, malgrado le catene che quei luoghi, quella gente, quel condominio misero di panni duri stesi al sole, mi trattenevano alle caviglie. Volevo essere libera e felice, io ero l’aspidistra, non il simbolo detestato da Gordon Comstock di Orwell o forse sì, l’opaca rispettabilità borghese? O il virgulto in grado di resistere a tutto, caldo freddo, bene, male. No affatto. E tuttavia non smettevo di credere che avrei trovato una risposta, a Mazzarrona, negli anni della giovinezza e dei deserti, la risposta alla domanda di sempre: “Cosa dovrà accadere?”.

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