Tecnologia

Facebook e WhatsApp: nozze miliardarie tra il diavolo e l’acqua santa

L’annuncio dell’acquisizione di Whatsapp da parte di Facebook per la cifra record di 19 miliardi di dollari (3 in contanti e 16 in azioni) è stato un vero terremoto che ha sconvolto la Silicon Valley. Oltre alla portata dell’operazione, il clamore che ha suscitato deriva dalle differenze tra le due aziende e del loro modello di business. L’ideatore di Whatsapp Jan Koum, per esempio, è quanto di più diverso ci possa essere dal genietto Mark Zuckerberg, catapultato dal college a Wall Street a cavallo del “libro delle facce”. Koum è un trentottenne cresciuto in quella che allora si chiamava ancora Unione Sovietica ed emigrato negli States a 16 anni. Dopo aver lavorato parecchi anni per Yahoo, ha lanciato insieme a Brian Acton il “suo” Whatsapp.

Meglio che dalle biografie, però, le differenze tra i due emergono dal tipo di prodotto che hanno creato. Whatsapp è un’applicazione semplice, indipendente e terribilmente “sobria”. Non contiene pubblicità e limita il suo campo d’azione a quello che promette di fare: permettere di comunicare da un telefono all’altro sfruttando il traffico dati. Semplice e lineare. Quasi disarmante. Così come lo è il suo successo: 450 milioni di utenti attivi dopo solo 4 anni di vita, con un trend che punta a raggiungere il miliardo di utilizzatori entro la fine di quest’anno.

Numeri che spiegano già da soli perché Facebook sia disposta a sborsare 19 miliardi di dollari per portarsi a casa la società di Koum e Acton. Whatsapp, infatti, è scaricabile e utilizzabile gratuitamente per il primo anno. Dopo, richiede un abbonamento annuale minimo di 0.99 dollari. Fatti due conti, dall’anno prossimo porterà a casa un miliardo di dollari all’anno. Tutto senza vendere pubblicità o inquinare il software con videogame o stravaganze “social” che, secondo i fondatori, finirebbero solo per snaturare il servizio.

Una filosofia che non è una semplice scelta “politica”, ma una vera dichiarazione d’intenti sul loro modello di business. Per capirlo basta leggere il loro blog, che nella pagina ufficiale di Whatsapp è affiancato dal titolo “Perché non vendiamo pubblicità” e da una frase tratta da Fight Club: “La pubblicità ci spinge a cambiare macchine e vestiti, a fare lavori che odiamo per comprare merda di cui non abbiamo bisogno”.

In un bell’articolo pubblicato da Wired Uk gli stessi fondatori spiegano le ricadute pratiche di queste scelte. Senza avere la necessità di profilare, analizzare, studiare e classificare i propri utenti per spremerne il potenziale pubblicitario, Whatsapp può permettersi uno staff di sole 50 persone, non ha bisogno di smisurate server farm per conservare dati (e infatti conserva solo le informazioni strettamente necessarie) e non si deve nemmeno preoccupare più di tanto delle ingerenze di Nsa e compagnia bella. Esattamente il contrario di ciò che accade dalle parti di Facebook, dove il social network si appoggia su una elefantiaca infrastruttura per la profilazione e la conservazione dei dati e in cui la guerriglia tra il desiderio di privacy degli utenti e la fame di informazioni dell’azienda non fa nemmeno più notizia.  

Insomma: a guardare la sua storia, Whatsapp si colloca agli antipodi di Facebook e un matrimonio come quello annunciato ieri può sembrare pura fantascienza. Quello che accadrà in futuro non è dato a sapersi, anche se Jan Koum, in un post indirizzato agli utenti di Whatsapp ha assicurato che “non cambierà niente”. Vedremo.