Cronaca

Ritorno a Mauthausen: ‘Ricordare è il nostro unico privilegio’

L’ultima volta che andai in pellegrinaggioa Mauthausen fu cinque anni fa. Ero con trenta studenti genovesi. Con noi quel giorno c’era anche Ezio F. un caro amico ex deportato. Fu lui la nostra memoria.

Entrati nella fortezza di Mauthausen camminammo fino a raggiungere la cava dove Ezio fu costretto a trasportare blocchi di pietra per dodici ore al giorno e per undici mesi. 186 scalini da percorrere avanti e indietro. Avanti e indietro.

Restammo in silenzio a fissare quegli scalini. Ci stringemmo tutti intorno a Ezio.

Cielo grigio. Qualche goccia di pioggia. Un leggero vento.

Ezio iniziò a parlare e io accesi il registratore.

La sofferenza umana non ha limiti come la cattiveria umana. E poi sono sicuro che quegli aguzzini tornavano a casa e al loro cane davano da mangiare la carne e li accarezzavano anche mentre noi morivamo di fame.

Ezio restò un attimo in silenzio. Abbassò la testa. Pianse. Dopo, asciugati gli occhi, riprese a parlare.

Vedere gli altri morire. Nel modo più orribile. Vederli lì per terra che si lamentano e tu che non puoi fare nulla. Non puoi far nulla, capisci?! E poi il pensiero: perché non faccio nulla? Perché non potevo farci nulla. Se davi una mano a qualcuno che stava per morire, facevi la sua stessa fine perché arrivava qualcuno di quei delinquenti e ti ammazzava.

Ezio riprese a piangere.

A ritornare qui non provo la sensazione di quando sono entrato, ma ritrovo la stessa sofferenza. E’ una sensazione impalpabile che ti colpisce ancora e ti fa male. Tuttavia ritorno ogni anno. Lo faccio per questa trentina di ragazzi che porto con me. Per fargli vedere e capire ciò che abbiamo sofferto quando eravamo giovani come loro. Vorrei capissero cosa hanno passato milioni di esseri umani perché non capiti più a loro e a nessun altro. Ho perso anche un fratello. L’ho lasciato nel campo di concentramento. Un pezzo della mia carne.

E torni con la memoria a tuo fratello, al dolore di tua madre. Al dolore che le abbiamo dato. Chi è tornato e chi non è tornato. Quei delinquenti non hanno colpito solo i ragazzi cui hanno tolto la vita, ma hanno tolto la vita e l’esistenza anche alle madri, alle famiglie. Quanti morti. E quanto dolore. Milioni di madri ad aspettare a casa il ritorno dei figli senza sapere nemmeno dove fossero. Ricordo mia madre a casa, parecchi anni dopo il mio ritorno, con gli occhi fissi sul muro della cucina come a cercare qualcosa. Io sapevo cosa: suo figlio, mio fratello che non era più tornato dal lager. Sperava sempre.

Ci allontanammo dalla cava. Ezio continuava a parlare.

Quando ci portavano via dall’Italia nessuno di noi poteva pensare a quello che sarebbe successo dopo. Io credevo di andare a lavorare. Avevo la disgrazia di andare a lavorare in Germania, ma a lavorare. Chi poteva immaginare che c’erano i campi di sterminio? Qualunque sogno, per quanto orribile, non poteva arrivare a quello che è accaduto. E’ successo di tutto. Ci è stata data la possibilità di morire in mille modi diversi. Chi in un modo, chi nell’altro, ma tutti senza lasciare traccia.

E poi l’odore. L’odore dei campi di concentramento. Oggi camminando qui senti il profumo della primavera, dei fiori e non puoi immaginare quello che c’era allora quando l’aria era piena di un odore che ti entrava direttamente in gola. Era come un grasso che ti entrava in gola e ti deprimeva. L’odore degli esseri umani che bruciano, soprattutto quando ci sono giornate grigie, è insopportabile. E’ come se ti ammazzassero. Bisogna provarlo per capirlo. Dopo un po’ che eri lì capivi cos’era quell’odore e non pensavi ad altro. Domani tocca a me. Quei forni bruciavano giorno e notte.

Appena arrivati però non sapevamo
Avevamo fatto già due notti in treno, nei vagoni. Ammucchiati. Quando siamo arrivati però abbiamo capito un po’ di più di quello che ci aspettava. Il modo in cui siamo stati accolti, c’erano trenta, quaranta, cinquanta SS ad aspettarci e quando hanno aperto i vagoni hanno cominciato a gridare con i mitra puntati. I cani che abbaiavano. Da tutto il chiasso che c’era ho capito che marcava male. Poi ci hanno divisi: una parte da un lato, poi ho capito che andavano direttamente nelle camere a gas, e l’altra a fare le docce sul serio. Ci hanno fatti mettere nudi, ci siamo lavati e ci hanno dato delle casacche e dei pantaloni a righe bianche e nere con un triangolo. Rasato i capelli con una riga più bassa al centro così in caso di fuga ci si poteva riconoscere anche da lontano e poi in quarantena che poteva durare cinque giorni o dieci o venti. Quando la manodopera era finita venivano a penderne di nuova. Io ero rimasto sette giorni e poi è cominciato anche il mio martirio. Dodici ore di lavoro nella cava. Una sofferenza continua. C’era chi sopportava meglio chi peggio, ma la sofferenza era la stessa. Sono stato fortunato, sono riuscito a sopravvivere. Undici mesi chiuso lì dentro. Alla fine pesavo trentasei chili. La fame, il freddo.

Incrociammo una mamma con due bambini piccoli che si divertivano a giocare sull’erba.

Guarda quella mamma.” Disse Ezio. “E’ arrivata qui con i bambini e ora giocano a rincorrersi. Non lo porterei un bambino così piccolo qui. Da più grande sì, perché devono vedere tutti e di qualsiasi colore politico, ciò che è accaduto. Rendersi conto di dove può arrivare un uomo guidato da un regime. Quegli uomini non erano nati così, sono stati trasformati in quel modo e portati a compiere azioni così terribili come se fossero naturali. Ammazzare uno perché è diverso da te.

Due uomini, nudi, uno di fronte all’altro: dov’è la differenza?

Ezio si guardò intorno. Poi si allontanò parlando tra sé: “Quando ero chiuso nel lager pensavo solo a quando sarei riuscito a uscire, oggi, invece, qui, penso solo a quanti amici non rivedrò più.

Era solo in mezzo al piazzale. Riuscimmo a cogliere ancora una frase: “Ricordare, è il nostro unico privilegio.

Grazie Ezio. Ci manchi.