Società

I postulanti e la balera di via Trieste

I poveri aspettano fuori dalla chiesa. Una volta erano solo neri, mormora un anziano che mi siede accanto. Avevo promesso di non chiamarlo più tempio: ma siamo al tempio. Ora ci sta pure lui, che vive in un ronco due traverse più avanti, nella busta conserva un paio di scarpe con la punta lucida. Una volta vidi il prete di frontiera nella sua casa di accoglienza discutere con il sacrestano mentre trascinavano il secretaire da un lato all’altro della stanza, il sacrestano alla fine raccolse una busta da terra, da cui tirò fuori un mocassino con la suola sollevata, bisognava provarlo ai ragazzi, un gambiano con numero di scarpa 38? Difficile.

Penso al gambiano e al prete di frontiera, mentre i poveri pigiano davanti la porta della chiesa. Penso a un nome da usare per loro, per i poveri, per chi indossa scarpe con la suola sollevata, ne provo vergogna, per me in special modo, per la mia impassibilità. Guardo i poveri, stringo gli occhi, i poveri sono postulanti dico al vecchio. Il vecchio fuma. Uno di quei vecchi muti o risentiti che di tanto in tanto litigano per una briscola, nel dopolavoro di via Trieste. Così l’altra sera decido di andare.

Gli anziani del quartiere ballano al suono dell’orchestrina, è tutto veramente antico, triste come un fondaco buio che vende sapone di lavanda, colla per topi e rasoi rudimentali con la lama che splende appena affilata, esistono ancora. Le commesse sono cariatidi, le ragnatele scendono dal soffitto, le tende mortifere nascondono il passeggio di fuori. Gli anziani ballano con l’orchestrina, Signorinella oppure In cerca di te con la voce di Natalino Otto. Il vecchio mi segue a distanza, lo stesso che sedeva con me al tempio, tiene la busta con quelle ridicole scarpe con la punta lucida. E’ un postulante. Anche lei sa? Si avvicina un po’ torvo, lento come sono lenti i vecchi. Comu? Chiede in dialetto. Scandisco bene: P-O-S-T-U-L-A-N-T-I.

Non capisce, ma finge il contrario. Entriamo dentro, nel dopolavoro la festa è cominciata da un pezzo: (…)dove sei perduto amore/io tento invano di dimenticar/ il primo amor non si può scordar, canta il frontman abbastanza affaticato. Il vecchio cambia le scarpe, calza quelle dentro la sporta, si piega come si piegano i vecchi, duri, legnosi. Le briscole sono finite, a una certa ora c’è l’orchestrina tiene a precisare una specie di usciere con un berretto di lana, calato sugli occhi. E mentre la pista si anima di un vociare lontano o gracchiante o imperfetto, con la sua umanità da trapasso, penso che non vorrei morire mai, o altrimenti evitare la vecchiaia, direi vecchiezza piuttosto, consumarmi inutilmente, ossa e carne, vorrei evitare.

Guardo fuori verso i postulanti, postulanti ripeto al vecchio. Il vecchio tiene tra le braccia la sua signora, trovata per caso. Triste come un fondaco o altrimenti per niente. Loro hanno fatto la guerra, il vecchio dice che ne ha fatte due, rido e rifletto: dunque a occhio e croce avrebbe almeno duecentanni. Sto zitta, taci, sì, ché io non dico mai la mia età, non me la chiedono, ma non festeggio i compleanni, semplice. Il frontman schiarisce la voce, con un palmo copre la capsula metallica, chiede dell’acqua. Il vecchio indossa le scarpe con la punta lucida, le ciabatte logore sono sistemate in un canto. Torno al tempio.